Kung Fu Panda 3 sarà la rinascita della DreamWorks Animation?
Con Kung Fu Panda 3, la DreamWorks Animation potrebbe tornare a ruggire. Perché questo terzo capitolo è così importante?
Per la DreamWorks Animation, Kung Fu Panda 3 è l’occasione, tanto ghiotta quanto imperdibile, di tornare a ruggire. La ricetta è triplice: tecnologia americana, portafoglio cinese, talento italiano. Vediamo perché il terzo capitolo delle avventure di Po è così importante per la casa di Shrek.
La parabola della leonessa che sfidò la Disney e si scottò
La storia di DreamWorks Animation è il racconto, quasi ventennale, di un incipit spettacolare e di una funambolica passeggiata sui carboni ardenti, con i segni evidenti di qualche ustione. Nata come scommessa creativa, produttiva e imprenditoriale, la creatura di Jeffrey Katzenberg è oggi una vecchia leonessa, ferita nella savana del box office, che appare china e in trepidante posizione di attesa. Dopo la separazione da DreamWorks nel 2004, il botteghino le ha dato linfa vitale, tra alti e bassi, fino al 2012. Poi, qualcosa si è interrotto. Non sono soltanto lontani i numeri di Shrek, ma quel filo conduttore che legava il pubblico al team che aveva sfidato la Disney appare oggi più sottile e sfilacciato.
Qualche insuccesso di troppo ha messo a dura prova le tre colonne portanti della palafitta societaria: investitori, lavoratori e creativi. I primi hanno visto il valore delle proprie azioni scendere, i secondi hanno spesso perso il loro posto di lavoro (l’intera Pacific Data Image, controllata del gruppo, è stata smantellata), i terzi si sono chiesti quanto fosse sostenibile e opportuno continuare a scommettere sul piano delle idee. Katzenberg, saldamente al timone, ha gestito la burrasca con la sfrontatezza del CEO e la freddezza del Commodoro: lacrime e sangue, ma si continua a navigare. E se la chiglia imbarca acqua, si corre ai ripari con ogni mezzo, compresa la messa all’asta della sede di Glendale. Saltate alcune teste, (come il Chief Brand Officer Michael Francis) e persi oltre 500 dipendenti, DreamWorks Animation si è di fatto riposizionata sul mercato, limitando a due i lungometraggi annui. Le scialuppe di salvataggio hanno inoltre fatto rotta verso il piccolo schermo e Netflix, con lo sviluppo della serie Dragons: Race to the Edge. Sulla via del risanamento, coniugando arte e industria con l’estro del prestigiatore e la tigna del contabile, Katzenberg ha scelto due vie maestre: sul piano creativo e produttivo ha iniziato un ricambio generazionale (con Bonnie Arnold e Mireille Soria a capo di tutte le unità di animazione), mentre dal lato finanziario ha sapientemente guardato alla Cina, scegliendo il franchise di Kung Fu Panda come biglietto da visita. Chi meglio del Guerriero Dragone avrebbe potuto inaugurare il rinascimento orientale della vecchia leonessa ferita?
Forse, il CEO ci ha visto lungo: la smisurata crescita del mercato dell’intrattenimento cinese e i recenti numeri da record di molti titoli di animazione fanno ben sperare. E’ con questo spirito che nel 2012 è nata la Oriental DreamWorks, figlia di DreamWorks Animation, China Media Capital, Shanghai Media Group e Shanghai Alliance Investment Limited: una fucina di talenti forniti da aquila e dragone, con il know-how della prima e il portafogli del secondo. A conti fatti, è un piccolo capolavoro di diplomazia commerciale avviato da Katzenberg nella terra del capitalismo di Stato. Ma nel chiedere l’aiuto della flotta alleata, il Capitano sapeva bene di non potersi fare Commodoro: guidata da James Fong, la Oriental DreamWorks vede come direttore creativo dei lungometraggi animati Peilin Chou, che vanta una brillante carriera dirigenziale tra Nickelodeon e Walt Disney Feature Animation. Proprio come Katzenberg, che dalla Disney si buttò in una nuova avventura, i nomi di punta della nuova compagnia vantano trascorsi eccellenti nelle grandi major.
Un Olimpo di divi, guerrieri e ravioli al vapore
Nato nel 2008, il franchise di Kung Fu Panda ha tutte le caratteristiche tipiche del prodotto DreamWorks Animation: spettacolo, contaminazione culturale e personaggi che richiamano, anche fisicamente, i propri celebri doppiatori. Se lo spettacolo è un marchio di fabbrica, la contaminazione culturale è una costante: che siano le fiabe (Shrek), la mafia (Shark Tale) le festività (Le Cinque Leggende) o il Kung Fu, il tipico prodotto del brand è fatto di storie di improbabili eroi (dagli orchi bonaccioni fino agli orsi sovrappeso) infarcite da un fiume di rimandi al nostro mondo e alle sue sottoculture. Un dettaglio che consente l’ingaggio di stelle hollywoodiane e volti noti: da Shrek a Shark Tale fino a Kung Fu Panda, i protagonisti sono spudoratamente modellati sul cast vocale chiamato a interpretarli. Mike Myers, Eddie Murphy, Will Smith, Angelina Jolie e Jack Black sono stati i modelli di riferimento, spesso anche fisici, dei loro comprimari animati. Kung Fu Panda, sicuramente, non fa eccezione. Tuttavia, nel paese del dragone subentra un dettaglio fondamentale: la cultura. E la prima regola del businessman di prim’ordine è sempre una: studiare l’ambiente culturale di riferimento del proprio mercato.
Katzenberg sa bene che in Cina il divismo e il culto delle grandi star sono fenomeni molto più recenti che negli Stati Uniti. E sa altrettanto bene che, dalla notte dei tempi, i veri beniamini dei giovani cinesi sono proprio i maghi del Kung Fu. Dalle campagne dell’entroterra fino alle distopiche megalopoli della Cina contemporanea, corrono i miti e le leggende di coloro che hanno saputo amalgamare un sapere ancestrale con la fisicità del corpo e il controllo della mente al servizio di poveri, innocenti e sfruttati. E’ un vero e proprio topos letterario, prestato al cinema, che la Cina ha saputo anche esportare, dando a star come Jackie Chan una notorietà strettamente legata al personaggio ricorrente del combattente buono. Non è un caso che nel nuovo Kung Fu Panda, Po sia chiamato ad addestrare una schiera di contadini indifesi per impedire l’ennesimo calpestamento dei loro diritti: la sceneggiatura, spesso, è il marketing più forte con il quale promuovere un prodotto di animazione. Come rendere appetibile la terza epopea del panda Po? Dieci anni fa, in tempi non sospetti, Federico Rampini ne Il Secolo Cinese aveva descritto un sentimento duro a morire persino nella Cina degli MBA e della finanza internazionale: il nazionalismo.
I cinesi amano i loro prodotti e le loro maestranze, e l’animazione non fa eccezioneI cinesi amano i loro prodotti e le loro maestranze, e un decennio più tardi l’animazione non fa eccezione. Ecco dunque che nel Paese nel quale il panda è uno dei simboli nazionali, Kung Fu Panda 3 viene concepito e sviluppato in due differenti versioni nelle quali il labiale dei personaggi è modellato sia sul cinese che sull’inglese. E’ la dimostrazione che la Cina non è soltanto l’ancora di salvataggio della compagnia di Glendale, ma ne è anche il primo mercato di riferimento. E nel solco della tradizione, gli autori inseriscono opportunamente un fiume di citazioni, immancabili nell’animazione moderna, tra le quali continua a regnare sovrana la saga di Star Wars. Se nel primo film il perfido Tai Lung esclamava “Shifu vi ha insegnato bene” rievocando le parole di Darth Vader, per il terzo è stato lanciato un vero e proprio trailer tematico con uno sketch che richiama il respiro inconfondibile del celebre Sith. Tuttavia, l’intuizione umoristica più azzeccata del franchise resta la celebrazione del raviolo al vapore come obiettivo ultimo del proprio addestramento. Proprio come in Karate Kid, in cui mettere e togliere la cera dava al protagonista un’agilità inaspettata, Po riuscirà a completare il proprio addestramento grazie ai goffi e ripetuti tentativi di addentare i tanto agognati bocconcini ripieni.
Da Pat Morita fino al maestro Shifu, passando per Yoda e Pai Mei, il saggio e severo maestro deve fare spazio nella mente del suo allievo prima di poterla nuovamente riempire. L’arte di disimparare ciò che si è imparato vale per i Jedi quanto per i panda: che si aspiri a padroneggiare il karate, la Forza o il Kung Fu è indispensabile liberarsi dei pensieri pregressi che guidano il nostro agire in maniera farraginosa e limitante. Una pratica che i manager delle più grandi multinazionali seguono oramai più per necessità che per moda: per chi investe in terra straniera, comprendere culture diverse non è soltanto cool ma è anche la chiave per avere un buon estratto conto. DreamWorks Animation punta al pubblico cinese come Po ai ravioli al vapore: intrattenendo gli spettatori cinesi, si agganceranno facilmente anche i loro omologhi occidentali, ancora attratti dal fascino dell’Oriente e dal suo immaginario ormai smaccatamente pop.
Il ritorno del Guerriero Dragone
Con un respiro profondo prima del balzo, DreamWorks Animation ha messo su una squadra multinazionale di creativi tra i quali spiccano i due registi: Jennifer Yuh e Alessandro Carloni. Lei è stata la prima donna coreana ad aver diretto un kolossal animato (Kung Fu Panda 2) per una grande major, lui è il primo italiano chiamato a un compito di altrettanto prestigio. Oggi, il franchise di Po è al suo terzo capitolo.
Perché Kung Fu Panda 3 è così importante? In primo luogo, perché per DreamWorks Animation rappresenta l’inaugurazione di un nuovo corso pur nel segno della tradizione. Non è proprio nello spirito dei primi due film portare una ventata di freschezza nella millenaria e paludata società cinese? E non è proprio il goffo panda Po ad aver sfidato tutto e tutti pur di essere una celebrità del Kung Fu? In secondo luogo, perché la Cina non è l’America. In Cina non puoi essere con facilità ciò che desideri e Pechino non è certo la disneyana Zootropolis: la tradizione, il lignaggio e l’inevitabile peso del proprio cognome sono ancora pietre miliari molto più radicate che nella terra delle opportunità a stelle e strisce.
Lo spirito con il quale gli spettatori cinesi premiano i film occidentali è ancora in parte un atteggiamento di genuina curiositàTuttavia, lo spirito con il quale gli spettatori cinesi premiano i film occidentali è ancora in parte un atteggiamento di genuina curiosità verso prodotti intrisi di valori lontani dai propri. È anche questo, difatti, che potrebbe garantire al franchise il suo terzo successo. Kung Fu Panda 3, in parte made in China, è dunque la sfida di creare un prodotto perfettamente in equilibrio, per non dire in bilico, tra l’omaggio al Paese del dragone e la disperata necessità di battere cassa su scala globale. In terzo luogo, la compagnia di Katzenberg ha l’occasione di mettere in moto un’inversione di tendenza: gli anni dei suoi tonfi al botteghino e dei risultati al di sotto delle aspettative (da Le Cinque Leggende al disastroso I Pinguini di Madagascar) hanno coinciso con i trionfi al box office dei Walt Disney Animation Studios (Frozen e Big Hero 6) e di Pixar (Ribelle - The Brave, Monsters University e Inside out) che hanno fatto incetta di premi, biglietti e bigliettoni. Non è stato sufficiente il buon andamento del franchise di Dragon Trainer per ripianare le perdite e fare fronte agli esorbitanti costi di gestione, e la nomination all’Oscar per la seconda avventura di Hiccup e Sdentato ha avuto la peggio contro l'eroico candore di Baymax. Se è ora di tornare a competere con i big, la migliore opzione è quella di combattere con un franchise di punta né troppo vecchio come quello di Shrek né troppo giovane come Dragon Trainer.
Naturalmente, a colpi di Kung Fu.