Kobe Bryant, la mia giovinezza, i videogiochi

Kobe Bryant lascia un vuoto incolmabile in milioni di appassionati, fan, persone comuni che si sono imbattute, anche solo per caso in una delle sue tante frasi motivazionali o che si sono commosse con il suo splendido cortometraggio animato Dear Basketball

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


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La prima volta che sentii nominare Kobe Bryant fu nell’ormai lontanissimo 1999. Ero poco più che un ragazzino e le prime avvisaglie dell’adolescenza mi indirizzarono lentamente verso un cambiamento epocale. Perso qualsiasi interesse per il calcio, alla disperata ricerca di uno stile musicale in cui potessi identificarmi, grazie a nuove amicizie maturate in ambito extrascolastico conobbi l’Hip Hop e il basket.

Passioni travolgenti che in pochi mesi mi spinsero a rivoluzionare il guardaroba, a comprare decine e decine di album, niente Spotify all’epoca naturalmente, a farmi appioppare un soprannome, che ancora oggi mi accompagna, fortunatamente, come diretta conseguenza dell’amore travolgente che mi colse sin dalla prima volta che vidi giocare la guardia dei Los Angeles Lakers.

All’epoca, oltre al già citato servizio di musica in streaming, non esisteva neanche YouTube e per vedere le partite dell’NBA bisognava essere abbonati a Telepiù, un lusso che solo poche famiglie potevano permettersi.

Costretto insieme a un manipolo di giovani infervorati della palla a spicchi in un piccolo paesino di montagna, a pochi chilometri dal confine che divide l’Emilia-Romagna dalla Toscana, l’unico modo per tenersi aggiornati era scambiarsi mucchi di VHS con chi godeva di un abbonamento alla TV a pagamento, comprare quante più riviste specializzate possibile, affidarsi al Televideo, altra creatura digitale estinta da tempo, ritrovarsi al campetto con i propri amici per condividere pareri, giudizi, novità.

Quel gruppo di ragazzi, oggi uomini sconvolti dalla notizia della prematura scomparsa del campione cresciuto anche in Italia, nutriva un’altra passione comune: quella per i videogiochi.

Dal collezionista sfegatato, che tuttavia non ha mai avuto il coraggio di mostrare agli altri i tanti pezzi che giurava di possedere e di custodire gelosamente nella sua cameretta, al fissato con le sfide multiplayer, ovviamente in locale, a V-Rally e Mario Kart, ogni incontro era l’occasione giusta per elencare i nuovi acquisti effettuati o citare i titoli del momento che avremmo tanto voluto provare e giocare tutti insieme.

Da amanti del basket, naturalmente, non potevamo ignorare la saga di NBA Live, non plus ultra per l’epoca, simulazione cestistica di Electronic Arts che offriva l’eccitate possibilità di ripercorrere virtualmente le strepitose cavalcate dei Lakers verso il titolo, esattamente come accadde nel 1999, 2000 e 2001, three-peat, come si dice in gergo, che lanciò Kobe Bryant nel firmamento delle superstar NBA, giovanissimo predestinato che già stava riscrivendo la storia della palla a spicchi.

Dal 1999 in poi, da NBA Live a NBA 2K, ogni anno si aspettava con trepidazione la pubblicazione dell’iterazione videoludica dedicata alla palla a spicchi, solo per scoprire la valutazione generale che avrebbe caratterizzato il nostro. Ora scandalizzati perché ritenuta troppo bassa, ora soddisfatti, perché dargli ulteriori punti non era possibile, è stato l’ennesimo metro di paragone con cui lo abbiamo confrontato con l’élite dei campioni del basket del presente e del passato, statistica di per sé limitante e a suo modo infantile, ma di vitale importanza per dei fan accaniti, gli stessi che non potevano che scegliere i Lakers di Kobe Bryant a ogni stagione virtuale o negli accesissimi tornei organizzati al volo tra di noi.

Con gli anni, qualche titolo NBA dopo, quel gruppo di amici si è ovviamente sciolto, nonostante qualcuno di noi sia rimasto in contatto e capiti persino di vedersi di tanto in tanto.

Eppure la passione comune è rimasta immutata. Anzi, quella per il basket e per i videogiochi, semmai, è accresciuta, soprattutto in chi vi scrive, ovviamente.

Qualche anno fa, per esempio, ho voluto recuperare Kobe Bryant in NBA Courtside, gioco per Nintendo 64 del 1998, uno dei pochissimi esempi di simulazione che cita direttamente nel titolo un atleta in particolare. Si trattava di una produzione già all’epoca poco più che discreta, il cui valore affettivo è naturalmente   incalcolabile, non fosse altro per l’acconciatura afro che la guardia sfoggia orgogliosamente nella copertina.

Con il diretto seguito, più genericamente intitolato NBA Courtside 2002, le cose sul piano della qualità globale andarono leggermente meglio, non fosse altro per l’incredibile intuizione di assegnare allo stick analogico destro il compito di direzionare i passaggi, feature inspiegabilmente mai più riproposta in nessun’altra simulazione. Quel gioco per Game Cube, tuttavia, è passato agli annali soprattutto per la splendida pubblicità che ne accompagnò l’uscita: un cubo di vetro, a simboleggiare la console della Grande N, con dentro una miriade di oggetti celebrativi dedicati al giocatore dei Lakers, con poco sotto una scritta che recitava “non venerare Kobe Bryant, diventalo”. Un messaggio davvero graffiante ed efficace per chi nell’armadio possedeva più jersey Giallo-Viola che paia di mutande.

L’apice, per quanto concerne il mondo dei videogiochi, beninteso, per il Black Mamba è arrivato nel 2009. Fresco di titolo NBA appena conquistato, ovviamente con i Lakers, ai danni degli Orlando Magic in una Finals senza grosse sorprese, al nostro, dopo anni di attese, è toccato l’onore di comparire nella copertina di NBA 2K10, con tanto di special edition che includeva una splendida action figure dello stesso giocatore.

Kobe Bryant e i videogiochi si sono incontrati da vicino in almeno altre due occasioni fugaci. Per promuovere Guitar Hero World Tour, quando ancora genere e saga erano sulla cresta dell’onda, il cestista, che non perdeva occasione per prestare il suo volto anche in occasioni televisive più o meno elaborate, dimostrò le sue discrete doti attoriali in uno spot dai toni estremamente ironici, in compagnia di altri sportivi del calibro di Tony Hawk e Michael Phelps.

Inoltre, nel corso dell’E3 2011, sempre nella sua amatissima Los Angeles, salì sul palco della conferenza di Sony per promuovere NBA 2K12, dimostrandosi anche in quell’occasione un’animale da palcoscenico, nonostante qualche difficoltà di troppo nel domare il Move, non proprio all’altezza della situazione come strumento di input alternativo per il complesso simulatore di Visual Concepts.

Kobe Bryant lascia un vuoto incolmabile in milioni di appassionati, fan, persone comuni che si sono imbattute, anche solo per caso, in una delle sue tante frasi motivazionali o che si sono commosse con il suo splendido cortometraggio animato, Dear Basketball, prodotto che è persino valso un Oscar all’ex-campione NBA.

Le sue gesta, cestistiche e non, rimarranno per sempre impresse nella memoria di chiunque lo abbia amato, ma anche nei tanti video che è facile reperire su YouTube o servizi affini. Noi videogiocatori, fortunatamente, avremo anche altri modi per ricordarlo e celebrarlo. Personalmente non sono ancora riuscito a realizzare 81 punti con un qualsiasi suo avatar digitale, cosa che invece gli riuscì nella realtà contro i Raptors il 22 gennaio 2006 in una delle più straordinarie e onnipotenti performance mai viste su un parquet. Penso, tuttavia, che nei prossimi giorni riunirò tutte le simulazioni cestistiche accumulate in questi anni, Kobe Bryant in NBA Courtside in testa, e ci proverò ancora una volta, lasciandomi trascinare dal piacevole flusso di ricordi che la pratica, inevitabilmente, azionerà.

Del resto, almeno in forma digitale, la stella dei Lakers continuerà a brillare in eterno. Magari un giorno, ai nostri figli, ai nostri nipoti, racconteremo del nostro beniamino, dell’idolo che ha stupito e incantato generazioni di appassionati proprio grazie a un po’ di sano retrogaming, in memoria dei ben tempi andati, quando la musica suonava in un certo modo e il basket era tutta un’altra cosa.

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