Knuckledust – Fight Club ha nostalgia dell’altroieri
Knuckledust – Fight Club è un omaggio a una serie di film d’azione che non sono usciti da abbastanza tempo per giustificare la nostalgia
Se amate un certo cinema di genere fatto di risse, cazzotti, malavita e storie torbide e violente raccontate in film direct-to-video che non troverebbero mai la strada della sala neanche se avessero la miglior distribuzione del mondo ma che conoscono una relativa fama sotterranea grazie al rilascio su piattaforma di streaming o – come si faceva un tempo – in Blu-ray o in DVD (ve li ricordate i DVD?), se, per dire, nel 2012 avete esultato per l’uscita di Universal Soldier: Day of Reckoning o se custodite gelosamente la vostra collezione di VOD di Scott Adkins, se vi riconoscete in queste descrizioni allora Knuckledust – Fight Club potrebbe intrattenervi in una serata moscia. Oppure potrebbe farvi infuriare per il modo in cui si appoggia a film di pochi anni fa trattandoli come se risalissero agli anni Cinquanta, e inventando così la nostalgia istantanea.
No, i film di riferimento sono altri. La storia è quella di un lottatore, Hard Eight (interpretato da Moe Dunford, se avete seguito Vikings ve lo ricorderete nei rubicondi panni di Aethelwulf), al quale viene ordinato, per compiacere un cliente, di farsi ammazzare alla terza ripresa del suo prossimo incontro. Lui si rifiuta, si ribella, ammazza tutti i presenti e anche qualcuno degli assenti; ora che la polizia arriva sul posto è l’unico sopravvissuto alla strage – o ne è l’autore? È quello che la linea comica del film dovrà scoprire. Nessun errore: Knuckledust si sente in dovere di essere non solo un film d’azione, sparatorie e mazzate, ma anche una commedia ironica ai limiti della slapstick. Ci sono le scritte giganti al neon che presentano i personaggi, c’è il poliziotto nerd che dice sempre la cosa sbagliata e rovina tutti i momenti solenni, c’è un tizio che ha massacrato un intero palazzo piano dopo piano come in The Raid, ci sono criminali vestiti come in un film di Guy Ritchie e più colpi di scena e svolte impreviste di… be’, un film di Guy Ritchie, ancora.
Non è tutto da buttare. Una sequenza di combattimento tra il protagonista e un gruppo di quelli che non sappiamo come definire se non ninja sadomaso, nella quale Kermack gioca non solo con le inquadrature ma anche con il formato dell’immagine, rimane particolarmente impressa e ci fa desiderare che Knuckledust contenga meno postmodernismo e più sperimentazione di questo genere. La villain di turno, la bellissima e cattivissima femme fatale noir Serena Marcos (Camille Rowe), ci mette più intensità e carisma di quanto il film si meriterebbe, e qualche battuta qui e là è particolarmente azzeccata. È un peccato che Kermack dimostri sempre troppo amore per i suoi modelli e troppo poco coraggio: con una sforbiciata alla lunghezza e qualche idea originale in più, Knuckledust sarebbe potuto diventare un minuscolo classico del genere. Così com’è, è comunque una piattaforma interessante nel caso in cui Kermack trovasse l’ispirazione (e i soldi) per espandere questo universo dai toni Johnwick-iani (e così chiudiamo citando un’altra influenza evidente, e prevedibilissima, del film).