Kipo e l’era delle creature straordinarie è l’apocalisse di cui avremmo bisogno

Kipo e l’era delle creature straordinarie è una delle opere più importanti del ventunesimo secolo – o quantomeno uno dei migliori originali Netflix

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La fine della civiltà, e quello che ne consegue, è stata raccontata in un miliardo di modi diversi negli ultimi decenni, ma prima del 2020 a nessuno era venuto in mente di farlo usando le api dubstep: è, senza dubbio alcuno, un motivo sufficiente per ritenere Kipo e l’era delle creature straordinarie una delle opere più importanti del ventunesimo secolo – o quantomeno uno dei migliori originali Netflix nonostante sia stato quasi completamente ignorato in questi mesi, e non solo per colpa della pandemia.

Kipo è il coloratissimo e minuscolo racconto (la prima stagione sono dieci episodi da 20-25 minuti l’uno) della vita in un mondo post-apocalittico che rientra vagamente nella macrocategoria “mutazioni nucleari”; l’opera di Radford Sechrist in particolare sceglie di virare sulle sottocategorie “mutazioni colorate”, “animali mutanti” e “droga”, immaginando un pianeta Terra dove ogni traccia di civiltà è stata inghiottita dalla vegetazione e soggiogata al volere di animali senzienti. Quel che resta dell’umanità vive sottoterra, in giganteschi rifugi costruiti tanto per tenere fuori le beste feroci quanto per tenere dentro le persone, che trascorrono la loro intera esistenza nel terrore di quello che c’è in superficie e nascono e muoiono senza mai vedere la luce del sole.

È un setup che più classico non si può: Kipo, la protagonista, rimane intrappolata in superficie in seguito a una catastrofe che colpisce il suo rifugio, e deve imparare a sopravvivere in un mondo a lei ostile e nel quale, è importante ribadirlo un’altra volta, esistono le api dubstep. Dove però il 99% della narrativa postapocalittica userebbe queste fondamenta per costruire un edificio di tristezza, solitudine, rabbia, abbandono, squallore, nostalgia di grandeur e tante, tante lacrime, Kipo punta su tutt’altro, punta sulla comicità, sulla meraviglia, punta a stuzzicare il senso dell’assurdo più che scaraventare chi guarda in un abisso di dolore; e ovviamente punta a parlare di amicizia, integrazione, speranza, tematiche per una volta non incorniciate da squallore e degrado ma da tutti i colori dell’arcobaleno e qualcuno in più. È una serie dannatamente divertente, che a tratti ricorda la miglior Pixar per tipologia e qualità delle gag e che altrettanto spesso punta sul post-modernismo, sul meta-, sulla decostruzione di anni e anni di una narrativa, quella post-apocalittica, sempre più incistata sugli stessi temi e sulle stesse modalità narrative.

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Sono solo dieci episodi, per ora (la seconda stagione di Kipo è arrivata su Netflix qualche giorno fa), ma c’è dentro abbastanza storia e abbastanza mitologia da riempire intere wiki: Kipo stringe un’amicizia apparentemente a senso unico con un’abitante della superficie, Wolf, e poi con una coppia di sbandati composta da un tizio sempre allegro di nome Benson e da Dave, il suo insetto parlante intrappolato in un ciclo costante di morte e resurrezione che è al centro di alcune delle gag migliori della serie. E Kipo conosce anche i suoi nemici, il mandrillo Scarlemagne, le rane mod, i lupi secchioni, come dicevamo Radford Sechrist non si è risparmiato in alcun modo. Anche perché la serie è per lui una grandissima occasione, visto che nasce come webcomic e diventa prodotto Netflix in tempo zero, opzionata a una velocità tale che in rete non si trova quasi più traccia della prima versione: c’è qualcosa sul Tumblr dell’autore, qualcosa sul suo account Deviantart, ma lui stesso ha confermato che ha smesso di lavorarci nel momento in cui Netflix ha ordinato lo show. Ed è bellissimo guardare la serie con questa consapevolezza, e apprezzare come Sechrist non si sia fatto cogliere da ansia da prestazione ma abbia sfruttato al meglio la piattaforma offertagli: Kipo non è solo una festa visiva con un cuore grande così, è anche un prodotto perfettamente pensato per i tempi del binge watching (una stagione si guarda in una sera neanche troppo intensa) o in alternativa per quelli frenetici e frammentati di chi ha tempo per guardare non più di un episodio alla volta.

A proposito di perfetti biglietti da visita: la prima stagione di Kipo segue un arco tutto sommato prevedibile (Kipo ha una missione molto chiara in testa fin dal minuto 1), ma lo chiude nel modo più inaspettato e con un cliffhanger grosso come il coniglio rosa gigante che imparerete ad amare. Non c’è alcuna risoluzione, solo un magnifico apparecchiare la tavola per l’inevitabile esplosione della seconda stagione, che abbandonate le formalità da origin story promette di diventare epica vera. Il consiglio, se finora ve l’eravate persa, è di recuperare Kipo al più presto possibile: se tutto va come deve (e il primo passo è una seconda stagione all’altezza: ne riparliamo presto), tra qualche anno potrete dire anche voi “io c’ero fin dall’inizio”.

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