King Kong di Peter Jackson è una lettera d’amore al cinema
King Kong di Peter Jackson non è solo un film su un gorilla gigante ma anche una dichiarazione d’amore alla settima arte
Nel 1933, l’inventore del Cinerama Merian Cooper e il suo partner creativo Ernest Schoedsack girarono King Kong, un film costruito sul successo di vent’anni di monster movie ambientati nella giungla e che divenne all’istante un classico, e una delle dimostrazioni più potenti delle infinite potenzialità del cinema inteso come macchina per fabbricare sogni, materializzare fantasie e creare mondi impossibili. 72 anni dopo, un regista neozelandese che con King Kong era cresciuto e grazie al quale aveva deciso che avrebbe dedicato la sua vita al cinema ebbe la possibilità di realizzare il suo sogno più segreto: provare a raccontare a modo suo quella storia che gli aveva cambiato la vita e aveva informato ogni sua scelta.
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King Kong, Naomi Watts e Orson Welles Jack Black
È facile quando si parla di King Kong (di qualsiasi versione di King Kong) concentrarsi esclusivamente sul rapporto tra il gorilla e la bionda di turno – Fay Wray per prima, poi Jessica Lange e infine Naomi Watts. Ed è vero, come già vi avevamo raccontato qui, che la versione di Jackson è forse quella che meglio di tutte gestisce la bizzarra relazione tra bella e bestia: la Ann Darrow di Naomi Watts è l’unica che sviluppa un rapporto complesso con Kong fin dal loro primo incontro, e che finisce per vedere nel gorilla il vero eroe della storia – è un modo per dare uguale importanza ai due lati dell’equazione, invece che concentrarsi quasi esclusivamente sui sentimenti del gorilla come faceva l’originale. Aggiungeteci che Naomi Watts si divora la scena ogni volta che agita i capelli e capirete perché è normale che il King Kong di Jackson venga visto innanzitutto sotto questa lente.
Il citazionismo, fatto bene
Che King Kong sia un film fatto da Peter Jackson anche per dire “ti amo!” al mondo del cinema è reso chiarissimo dall’esorbitante quantità di citazioni, omaggi e riferimenti alla storia di Hollywood. Alcuni sono innocue strizzate d’occhio a chi sa capirle: per il suo film esotico Denham vorrebbe una certa “Fay” (Wray), che però, gli dice il suo assistente Preston (Colin Hanks), è già impegnata a girare un film con Cooper per RKO; è un facilissimo riferimento all’originale del 1933, ma è anche una frase che ha perfettamente senso anche senza conoscerne il contesto, e non tira fuori dal film chi non riesce a cogliere la citazione. Nella stessa categoria rientrano anche una serie di battute riprese verbatim e di dettagli visivi che fanno riferimento ad altre opere passate di Jackson (per esempio, nella stiva della nave si vede una gabbia nella quale è tenuta la scimmia-ratto di Splatters, nel quale peraltro già si citava l’Isola del Teschio).
Ma è in quella che forse è la scena più importante del film che Jackson arriva a coniugare alla perfezione la sua voglia di parlare di Kong e quella di parlare di cinema. Quando Ann viene catturata da Kong e portata sul suo trono, ai piedi del quale c’è un letterale tappeto di ossa appartenenti alle precedenti persone sacrificate (possiamo assumere, sulla base dell’originale, che fossero tutte donne), la sua reazione non è di terrore, perché capisce che il gorilla non la sta minacciando ma sta cercando di stabilire una qualche forma di comunicazione. E lei comunica nel modo che le viene meglio: con il linguaggio del teatro, del ballo, del cinema, della finzione; la sua persona da palco diventa quindi la chiave per superare le differenze di specie, e l’incomunicabilità dovuta al fatto che, be’, Kong è un gorilla gigante che non parla.
È un’idea non dissimile da quella che anni dopo Guillermo del Toro sfrutterà in La forma dell’acqua, con la differenza che in King Kong è passata molto più inosservata perché inserita in un secondo atto opulento e straripante di creature, inseguimenti, gente che muore, gente che sopravvive per miracolo, risse tra Kong e due T. rex – qualcosa che nel 1933 non si poteva fare, non con questi risultati, ed è anche per questo che Jackson lo fa con questo entusiasmo e, come gli è stato fatto notare da più parti, senza alcun senso della misura. Forse è vero che il risultato di questo entusiasmo è un film troppo lungo, come disse all’epoca una parte della critica, troppo stiracchiato soprattutto all’inizio; anche se l’intero primo atto, quello in barca, serve in realtà per dare a ogni personaggio una profondità inusuale per un film di avventura con questo budget: guardate quello che hanno combinato a Brie Larson e Tom Hiddleston nel comunque divertentissimo Kong: Skull Island, e confrontatelo con, per dire, una coppia di personaggi secondari composta da un orfano con la passione per Conrad e una figura paterna che lo incoraggia ad abbandonare il nido.
E forse è vero che il secondo atto esagera con il caos bestiale, e un paio di sequenze si sarebbero potute tagliare a tutto vantaggio del ritmo – ma rinuncereste davvero a Andy Serkis che viene letteralmente divorato dalla CGI solo per avere un film da 140 minuti come voleva Universal invece che da 200? E davvero tre ore vi sembrano troppe se il viaggio vi porta fin qui?
Perché noi preferiamo tenercelo così, in tutto il suo splendore da kolossal.