Kiki – Consegne a domicilio vi farà stare bene

Kiki – Consegne a domicilio è una parabola di formazione e crescita alla fine della quale avrete una gran voglia di fare cose

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Kiki – Consegne a domicilio tornerà nei cinema dal 13 al 19 luglio grazie a Lucky Red

Crescere, come potrà confermarvi chiunque abbia raggiunto l’età adulta, è una fatica: bisogna imparare a cavarsela con le proprie forze, raggiungere l’indipendenza, pensare al futuro con progettualità e non come a un traguardo lontano e nebuloso. Crescere, però, è anche inevitabile: arriva il giorno in cui bisogna abbandonare il metaforico grembo materno per addentrarsi nel mondo e imparare a navigarlo con le proprie forze. Kiki – Consegne a domicilio riesce a parlare di questo passaggio traumatico con leggerezza ma senza superficialità, e ha il balsamico potere di lasciare chi lo guarda con la sensazione che, nonostante tutto, “si può fare!”.

Tratto da un romanzo di Eiko Kadono, Kiki – Consegne a domicilio potrebbe essere il film più solare e ottimista dell’intera produzione Ghibli, più ancora di quella che dovrebbe essere un’opera per bambini come Ponyo sulla scogliera. Kiki è invece un’opera per due categorie di persone: quelle che stanno vivendo il succitato e complicato passaggio verso l’adolescenza, e tutte le altre, che lo vivranno o che lo hanno vissuto. Adolescenza che, nel caso della protagonista del film, coincide anche con la promozione ad adulta: la storia è che Kiki è l’ultima discendente di un’antica genìa di streghe, le quali hanno una tradizione che prevede che, al compimento del tredicesimo anno di età, la giovane aspirante fattucchiera se ne vada di casa per un anno intero, cavandosela da sola e imparando a conoscere il mondo, con l’idea infine di stabilirsi nella sua nuova casa come strega residente.

È una tradizione curiosa e che all’apparenza complica un po’ il nostro discorso sul passare del tempo, nel senso che Kiki si ritrova contemporaneamente a dover gestire, per citare quelli là, il suo corpo che cambia, e il fatto di doversi inventare un lavoro e guadagnarsi da vivere in un luogo sconosciuto. Per Hayao Miyazaki, Kiki – Consegne a domicilio “rappresenta con calore l’abisso che c’è tra dipendenza e indipendenza nelle ragazze adolescenti giapponesi”: è chiaro che nessuna tredicenne di Tokyo si ritrova in mezzo alla strada costretta a consegnare curriculum nella speranza almeno di un posto da stagista che le permetta di pagare una stanza e un magro pasto, com’è altrettanto chiaro che sotto la superficie della storia (Kiki è disoccupata e deve trovare un impiego) c’è una parabola di distacco dal grembo familiare che si può applicare a qualsiasi tredicenne del mondo.

Kiki – Consegne a domicilio avrebbe quindi, volendo, tutte le carte in regola per essere una storia dickensiana di sofferenze e sacrifici, che ci ricorda una volta di più (o lo anticipa a chi ancora non ci è passato) che crescere è prima di tutto doloroso e faticoso soprattutto quando scopri che tutto il mondo ti rema contro, volontariamente o meno. E il primo atto potrebbe quasi confermarlo: superata la meraviglia di scoprire quanto è vasto il mondo, Kiki si ritrova in una città enorme, fredda e indifferente, nella quale nella migliore delle ipotesi è guardata come una stranezza perché vola ed è vestita in modo curioso, e nella migliore viene ignorata.

Ma questa volta Miyazaki non è interessato a farci soffrire o a metterci in guardia. Pur avendo le sue piccole/grandi crisi e i suoi momenti di difficoltà da superare, Kiki – Consegne a domicilio è prima di tutto un film incoraggiante, che vuole rassicurarci sul fatto che ce la possiamo fare – magari stando male, magari faticando, ma ce la possiamo fare (ed è un messaggio rivolto esplicitamente a una specifica fascia di età, ma che è applicabile anche a tutte le altre). Nella sua ricerca di indipendenza, Kiki conosce soprattutto brave persone: il mondo è un posto difficile, ma lo è un po’ meno se hai gente al tuo fianco che ti sostiene e ti dà una possibilità.

Quest’atmosfera accogliente e quasi priva di frizioni, che è quasi un unicum nella filmografia di Miyazaki (e che peraltro nel romanzo di Kadono è ancora più calcata), si riflette anche sull’estetica di Kiki – Consegne a domicilio, che anche a livello di ambientazione abbandona il Giappone per inventarsi un’immaginaria ma plausibile città costiera del Nord Europa (l’ispirazione principale è Stoccolma), e che mette da parte tutti gli elementi fantastici che contraddistinguono la sua produzione. Certo, Kiki vola e ha un gatto che parla, ma tutto il resto è più dalle parti di Si alza il vento: niente magia, niente creature strane, tanti vicoli, scorci, angoli urbani, negozietti che ti fanno venire voglia di mettere in pausa per esplorarne tutti i dettagli. Non è un caso che la crisi peggiore del film per Kiki coincida con la temporanea perdita dei suoi poteri: è il momento in cui il distacco dal mondo magico nel quale è cresciuta raggiunge il suo apice, ed è quello in cui la ragazza è costretta a confrontarsi davvero con come funziona il mondo e com’è costruito – a imparare che la gente non vola ma cammina sui marciapiedi e deve fare attenzione al traffico, per esempio.

Anche nei suoi momenti più cupi, comunque, Kiki – Consegne a domicilio non perde mai il sorriso e non si abbandona mai alla disperazione. C’è sempre una scintilla di ottimismo dietro la storia della streghetta, la sensazione che prima o poi le cose torneranno a funzionare. Basta continuare a provarci, non farsi spaventare dagli ostacoli e imparare anche, quando serve, a chiedere aiuto. Vi garantiamo che uscirete dalla sala e vi sarà tornato il buonumore, e sarete persone migliori.

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