Karate Kid III – La sfida finale è un gritty reboot ante litteram
Karate Kid III – La sfida finale è un film sulla perdita dell’innocenza, ma il salto rispetto ai due capitoli precedenti è troppo brusco e non funziona altrettanto bene
Se pensate alla saga di Karate Kid come a un romanzo di formazione e di scoperta di sé stesso da parte di un adolescente in pieno sviluppo, Karate Kid III – La sfida finale è il momento della parabola nel quale il protagonista viene strappato dal suo universo un po’ zuccheroso fatto di perle di saggezza e riverbero anni Ottanta e scaraventato in mezzo alla strada, dove un gruppo di bulli lo riempiono di botte “perché forgia il carattere”. Insolitamente e anche sgradevolmente violento, lontano parente della favola rassicurante che era il primo film ma anche dell’avventura esotica del secondo, La sfida finale è una sorta di gritty reboot di sé stesso quando ancora i gritty reboot non andavano di moda, troppo simile all’originale e insieme troppo distante dal suo spirito per poterne replicare il successo.
Il passaggio più divertente dell’intervista sopracitata è quello in cui Kamen spiega che i produttori non presero benissimo la sua idea e gli proposero invece di fare “un altro Karate Kid”; Kamen inizialmente rifiutò, ma cambiò idea di fronte a un assegno particolarmente consistente. Karate Kid III – La sfida finale nasceva quindi già male: nessuno voleva davvero farlo, ma Columbia Pictures fece la più classica delle offerte che non si possono rifiutare.
E invece Karate Kid III – La sfida finale alza il volume fin dall’inizio. I bulli non bastano più: il vero villain del film è il Terry Silver di Thomas Ian Griffith, miliardario che fa i soldi scaricando scorie nucleari nella foresta vergine ed ex allievo/commilitone di John Kreese. Il karateka da sconfiggere è un “bad boy” che viene ingaggiato da Silver con l’esplicito scopo di fare del male, possibilmente duraturo, a Daniel. Kreese voleva umiliare Miyagi e dimostrargli di essere il miglior maestro di karate di Los Angeles; Silver vuole distruggergli la vita, condannarlo all’oblio, riempire la valle di decine di dojo controllati da lui, trasformare Cobra Kai in un franchise.
E allo stesso modo: in Karate Kid Daniel veniva inseguito e tormentato da un gruppo di bulli, che però si fermavano sempre prima della violenza vera; e l’unica volta che rischiavano di superare il limite Miyagi interveniva e fermava tutto. In La sfida finale la violenza è uno dei fil rouge dell’intero film – violenza organizzata, di stampo mafioso, ben lontana da quella adolescenziale dei primi due capitoli. A Daniel viene persino negato l’amore; come nei primi due film c’è un love interest, che però mette subito in chiaro di essere fidanzata e di voler solo essere sua amica (una necessità dettata anche dal fatto che Ralph Macchio aveva 27 anni e Robyn Lively 16); eppure neanche nella sua infinità castità la povera Jessica riesce a risparmiarsi minacce di stupro e persino di morte.
Karate Kid III – La sfida finale prova anche a mettere in crisi il rapporto tra Daniel e Miyagi, ma anche questo strappo suona forzato e artefatto se messo a confronto con quanto dicevano i primi due film. Certo, volendo si può giustificare tutto quanto dicendo che Daniel è un adolescente e dunque naturalmente soggetto a cambi repentini d’umore e a gesti estremi; ma resta il fatto che guardando La sfida finale si ha la sensazione che manchi qualcosa, che quella che fino a quel momento era stata una crescita armoniosa stia subendo un’accelerata troppo brusca e troppo piena di scorciatoie.
È come se Daniel LaRusso non solo non fosse ancora pronto a quello che gli succede nel film, ma non lo sia neanche una volta che il film è finito; i suoi traguardi, la sua inevitabile vittoria nel combattimento finale che è un classico del franchise, non arrivano armonicamente, sono shock improvvisi che lo lasciano disorientato, e obbligano Miyagi a un ruolo da deus ex machina che avrebbe dovuto abbandonare dopo il primo film. L’idea stessa di chiudere Karate Kid III – La sfida finale come i primi due, con la vittoria di Daniel e la sua esultanza, senza lasciare spazio ad alcuna coda, è profondamente insoddisfacente: non stiamo più parlando di John Kreese che vede il suo miglior alunno perdere e dunque cade in disgrazia, ma di un criminale che ha messo Daniel nel mirino, e che arriva sui titoli di coda senza avere davvero perso. Certo, per tutto questo esiste Cobra Kai, direte voi. È vero, avete ragione, risponderemo noi, perché questo ci permette di far finta che Karate Kid 4 non sia mai esistito.
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