Karate Kid II – La storia continua è un film che mette troppa cera
Karate Kid II – La storia continua… alza la posta emotiva rispetto al primo capitolo, ma così facendo esagera un po’ troppo
La terza regola del Grande Libro dei Sequel – un apparato letterario fondamentale e segreto, del quale un giorno vi parleremo sperando di non farci beccare dai Poteri Forti – dice semplicemente “fallo più grosso”. Un sequel deve sempre essere un passo avanti, non all’indietro: più personaggi, più location, se va bene idee più coraggiose, posta in palio rigorosamente più alta – a meno che non ti chiami Cloverfield e per fare un seguito decidi di puntare sulla claustrofobia, ma questo è un altro discorso che non c’entra con Karate Kid II – La storia continua, classico esempio di titolo che solo negli anni Ottanta potevamo pensare di fare, ma pure questo è un ulteriore altro discorso. A noi qui interessa parlare del sequel di Karate Kid, e del perché, nel tentare di superarlo, finisce al contrario per risultare inferiore. Sempre gradevole, intendiamoci, ma con decisamente troppa cera.
Il coraggio non sta tanto nella scelta di un sequel così appiccicato al predecessore, quanto nella direzione che il film prende quasi immediatamente. Dopo aver visto Ralph Macchio vincere il suo primo torneo grazie a un calcio in faccia che probabilmente va contro il regolamento (ma visto quello che succedeva prima è tutto sommato giustificabile), il pubblico si aspettava un altro film in cui il protagonista fosse lui, e Pat Morita al suo fianco a fare da padre surrogato, mentore, sensei, guida spirituale et cetera. E quindi il pubblico si aspettava un altro torneo, un altro rivale, magari un altro istruttore cattivo come Kreese. E invece Robert Mark Kamen decide che con Karate Kid II può anche permettersi di mettere Daniel (relativamente) in secondo piano, e di concentrarsi su quello che era stato la più grande sorpresa del primo film: Hideo Miyagi, o Nariyoshi Miyagi se preferite la versione del sequel. Ed è proprio da questa scelta che nascono tutti i problemi del film.
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Non arriviamo a dire che a nessuno interessasse del suo passato, ma è senza dubbio una scelta curiosa quella di incentrare Karate Kid II sul suo ritorno a casa, e spostare quindi l’ambientazione in Giappone. Certamente efficace, perché serve a moltiplicare a dismisura la posta in palio sotto tutti i punti di vista. Se nel primo film Daniel era un pesce fuor d’acqua perché era appena arrivato a Reseda, qui è un intero branco di salmoni scaraventato in cima a una montagna bruciata dal sole. Se in Karate Kid Daniel era vittima di bullismo e prevaricazioni tipicamente adolescenziali, qui viene minacciato di morte. E lo stesso si può dire di Miyagi: nel primo capitolo rischiava di perdere una reputazione della quale gli fregava relativamente, nel secondo in palio c’è la sua vita e la sopravvivenza del suo intero villaggio.
Resta però il fatto che Karate Kid ci aveva fatto investire in un ragazzo che vuole diventare il miglior karateka d’America, e Karate Kid II ci strappa immediatamente da quel sogno per farci fare invece un tuffo nel passato – e non il suo, ma quello del suo mentore. Il film sembra quasi divertirsi a smitizzarlo e farlo scendere a forza dal piedistallo: scopriamo il vero motivo per cui ha abbandonato Okinawa per trasferirsi (o meglio fuggire) in America, conosciamo la donna che ha sempre amato ma che ha anche abbandonato, lo vediamo umiliato da quello che un tempo era il suo migliore amico. È un film difficile da decifrare e anticipare, perché ogni snodo narrativo è influenzato dal fatto che ci troviamo a Okinawa, dove le cose funzionano diversamente dall’America, e dove Daniel non può fare due passi da solo ma ha sempre bisogno di un accompagnatore (o di un’accompagnatrice: è comunque un film per l’adolescenza e la presenza di un love interest per il protagonista è inevitabile).
Ed è anche un film che, nella sua ricerca della solennità e anche della ritualità estrema con cui avvengono le cose in Giappone, perde tutto il ritmo e la leggerezza del primo capitolo. Karate Kid II – La storia continua è un film infinitamente più serio di Karate Kid, e per ogni fuga precipitosa tra le strade della città c’è un’interminabile cerimonia del tè, per ogni allenamento nel dojo della famiglia Miyagi ci sono lunghi dialoghi sul passato, sull’onore e sul senso della vita. E quando tiri in ballo questioni esistenziali, persino geopolitiche, tipo “è possibile sopravvivere in un ambiente rurale dopo l’arrivo del capitalismo che ha schiacciato la manifattura locale?” o “qual è stata l’influenza della base militare americana di Okinawa sulla popolazione dell’isola?”, è chiaro che chi guarda si aspetta risposte altrettanto profonde.
E invece, proprio sul finale, avendo detto tutto quello che poteva dire, Karate Kid II mette in soffitta tutte le sue ambizioni e torna sui suoi passi, risolvendo con faciloneria gli antichi conflitti che sembrava potessero portare a una qualche versione locale dell’apocalisse e mettendoci pure quel pizzico di sindrome del white savior che serve a Daniel-san per brillare proprio sul finire di un film del quale fin lì era stato al massimo co-protagonista. C’è troppa carne al fuoco (o troppa cera messa) nei primi due atti, che sfocia non in un’esplosione ma in una valanga di facile retorica – e quindi in un combattimento finale ricco e sfarzoso, ma coreografato mediocremente e dall’impatto emotivo che è un decimo di quello del primo film.
C’è da dire un’ultima cosa: nonostante questi problemi Karate Kid II – La storia continua incassò più del primo, venne salutato come un grande sequel e convinse la produzione a girare anche un terzo capitolo. Che è quello dove le cose cominciano ad andare male sul serio – ma, come dicevamo a inizio pezzo, questo è un altro discorso, sul quale torneremo presto.