Jurassic Park, 25 anni fa, scriveva il saggio definitivo dello Spielberg-pensiero sul cinema

Il cinema come parco giochi dove provare sensazioni forti e divertirsi con lo stato dell'arte della tecnologia nasceva con Jurassic Park.

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Noi che guardiamo loro mentre loro guardano dei dinosauri. È il succo di Jurassic Park: il pubblico, che è sbalordito mentre vede un dinosauro sullo schermo perché è la prima volta che ciò che non esiste è a un livello di fotorealismo indistinguibile da ciò che invece esiste, sta anche guardando dei personaggi che sono a loro volta sbalorditi perché vedono davvero un dinosauro. Tutti in ammirazione della stessa cosa. Il piacere di guardare qualcosa che ha un effetto devastante su di noi, il fascino del cinema per Spielberg.

Il punto stesso del parco al centro della storia è guardare, venire a guardare qualcosa che non credevamo possibile, ammirarlo con le jeep in un safari di fantascienza che però è ambientato nel passato del pianeta. E c'è tantissima immedesimazione di Spielberg nella creazione di uno spettacolo ammirabile, una fantasmagoria di creature che non esistono ma sono ricreate "artificialmente", con la scienza e la tecnica, per generare amore, stupore e magari commozione.

In questo incastro logico del guardare chi guarda mentre lo sta facendo sta uno dei segreti di Jurassic Park, un B movie di lusso in cui persone scappano da mostri per tutto il film, che è anche il primo blockbuster della sua era, cioè il primo film “parco giochi”, da vedere per godere delle sue montagne russe, spaventarsi con la casa degli orrori e divertirsi provando sensazioni forti. All'epoca sembrò a molti la morte di Spielberg come artista e la resa al commercio, perchè oltre lo stupore e le sensazioni forti non c'era altro, non c'era nessun tema ponderoso o risvolto sentimentale delicato. Invece gli altri livelli di lettura erano tutti lì, riguardavano il cinema ma al momento dell'uscita era impossibile capirlo, sarebbe servito il tempo.

Jurassic Park, 25 anni fa, fece sembrare Lo Squalo una prova generale. Del resto Spielberg stesso lo definiva come “Lo Squalo sulla terraferma” (il quale a sua volta era “Duel in acqua”), l’unico possibile sequel di quel film.

Circa 15 anni dopo quell’avventura disastrosa ma fortunata Spielberg era il re di Hollywood e poteva dettare i suoi tempi e i suoi modi. Aveva comprato i diritti del libro di Crichton ed era pronto a realizzare il blockbuster che avrebbe definito il concetto di blockbuster per generazioni a venire. Si era tuffato nello stato dell’arte dell’animatronic e dei pupazzoni, ricevendo anche i consigli della Industrial Light & Magic riguardo le possibilità del digitale.


Alla fine, nonostante quel che si crede, sarebbe finita con solo una 60ina di inquadrature digitali in tutto il film, cioè pochissimo (il sequel ne avrebbe avute 4 volte tanto). Il resto è lo stato dell’arte dell’animatronic di Stan Winston e Dennis Muren, pupazzoni che fanno alcuni movimenti da sé e per altri sono animati a mano. E nonostante sia abbastanza logico in quali momenti necessariamente stiamo vedendo una creatura digitale, queste sono indistinguibili dai pupazzoni.

A 25 anni di distanza il film non perde un colpo, la tecnologia non è invecchiata né sembra di un’altra generazione. Dimostrazione che non è mai il solo progresso della potenza di calcolo a determinare l’invecchiamento della computer grafica, ma il suo cattivo utilizzo.

Nella stessa annata in cui avrebbe realizzato il suo primo vero film politicamente impegnato (Schindler's List), Jurassic Park costituiva un passo in avanti anche sul fronte commerciale. Fu il primo blockbuster-nerd, cioè il primo film a trattare la propria mitologia di fantasia con un’inusuale concretezza e con delle basi scientifiche più che plausibili. Ci sarebbero voluti 20 anni perché questo tipo di mentalità “para-scientifica” venisse applicata alla gran parte dei blockbuster più venerati, allora era solo un desiderio di Spielberg di raccontare come davvero i dinosauri potessero tornare in vita.
Tutta la nota sequenza in cui è spiegato il meccanismo degli insetti conservati nell’ambra, il DNA del sangue di dinosauro e la clonazione era semplice e (a suo modo) impeccabile. Invece di avere un mostro dalle origini ignote o fumose (colpa delle radiazioni, viene dallo spazio...) erano creature potentissime la cui origine era ben chiara.

Ma nemmeno solo quello. In Jurassic Park arriva all’apice il culto della tensione di Spielberg qualcosa a cui aveva molto tenuto nella prima parte della sua carriera e che non avrebbe più curato con tale dedizione dopo questo film. Tra le molte parti passate alla storia ci sono le tante inquadrature che servono a creare tensione. I bicchieri che vibrano, le foglie che si agitano, i velociraptor che soffiano sull’oblò della porta prima di aprirla.

In tutto Jurassic Park si respira insomma l’aria del metacinema, del cinema che parla di se stesso, delle proprie dimensioni e dell’arte di mettere in scena, come del resto insegnava l’originale King Kong (anch’esso un film sul cinema). Dall’arrivo in elicottero con l’ingresso in scena spettacolare dell’isola e del parco, all’atteggiamento da imbonitore da fiera di Richard Attenborough, fino alla già raccontata metafora del cinema come parco divertimenti e dello stupore tutto Jurassic Park è l’esaltazione dello sguardo e della meraviglia del guardare. I dinosauri sono terribili e bellissimi, letali ma anche calamitanti. Lo Squalo lo vedevamo poco e male, i dinosauri invece li dobbiamo ammirare.

Del resto la "Spielberg face" di Sam Neill e Laura Dern mentre vedono per la prima volta un dinosauro è la quintessenza del pensiero spielberghiano sul cinema, la macchina dello stupore. Il giorno maledetto in cui questo regista immenso ci lascerà dovremo per forza usare quest'immagine come commiato, il vero senso del suo retaggio.

Continua a leggere su BadTaste