Jungle Fever: il sesso secondo Spike Lee fa i conti con il razzismo

Jungle Fever compie 30 anni ed è quanto mai in linea con la sensibilità di oggi, ma è anche il più grande limite retorico del film.

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Per Spike Lee il sesso è uno strumento sociale regolato dalle stesse dinamiche sociali che generalmente si esprimono fuori dalle coperte. Amori e odi, curiosità morbose e voglia di conoscenza reciproca tipiche dell’essere umano. C’è però un ostacolo all’esplorazione: le convenzioni sociali, i ghetti imposti e autoimposti. Il razzismo è talmente permeante che arriva in una forma subdola e nascosta anche nelle relazioni carnali, dice Jungle Fever. Il film, che oggi compie 30 anni è una commedia di stampo quasi erotico, dove si vede ben poco, ma si parla tantissimo del piacere e della carne. Da quanto tempo non facciamo più film del genere!

Flipper è un architetto afroamericano di grande successo. Ha una moglie e una figlia. Ama la sua famiglia. Un giorno nello studio arriva Angela, una segretaria italoamericana. Subito scatta l’attrazione tra i due. Una notte di passione che presto gira sulla bocca di tutti rovinando le due vite e sconvolgendo le comunità di appartenenza dei due. 

Jungle Fever è un film clamorosamente a tesi, dove c’è solo una cosa da dire e si fa di tutto perché il messaggio sia chiaro. Lo si ribadisce a ogni scena. Il razzismo riguarda tutti, bianchi, neri, e quando non lo si riconosce ci si ritrova soli, isolati e deboli. Quando Spike Lee lo spiega con il tono della commedia il film funziona. Sono esilaranti le lunghe sequenze di dialogo in cui tutti commentano la notte brava dei protagonisti. Gli uomini incuriositi (“come è farlo con le bianche?”) altri scandalizzati da questa unione. Le donne allo stesso modo si dicono preoccupate: “stiamo perdendo tutti i nostri uomini colpa delle sgualdrine bianche”.

E giù di stereotipi, di cui i personaggi stessi ridono considerandoli assurdi. Però è come se in fondo ci credessero e volessero verificare di persona. Come sempre le strade, in particolare quelle di Harlem, sono centrali soprattutto nella deriva drammatica del finale. Una parte decisamente meno riuscita e troppo predicatoria per arrivare a pareggiare l’intelligenza della prima parte. Nelle case c’è un sesso ridente, passionale, nelle strade è una merce che si scambia al buio tra i fumi e il sudore.

Sarebbe potuto essere molto più arrabbiato questo Jungle Fever se, dopo la proiezione di prova con il pubblico , la produzione non avesse fatto rimuovere una scena chiave dell’inizio. C’era il regista stesso, nei panni di Cyrus, che rompe la quarta parete con un discorso che conduce lo spettatore nel film. «Tutto ciò che ho sono domande. Pochi di noi hanno risposte reali. Molti di noi hanno false risposte per false soluzioni. Parlano di cose non reali. Domande. È razzista una persona che, lui o lei, non approva una relazione o un matrimonio interrazziale? La donna bianca sarà sempre in tutto il mondo il simbolo della bellezza? E l'uomo nero sarà sempre considerato uno stallone e basta? Vivremo mai in pace tutti insieme? Domande. Questo film parla di una coppia interrazziale. E tutti quelli che mi giudicano antisemita possono baciarmi il c**o. Due volte».

Miti e credenze dell’amore che si intrecciano con la dipendenza da crack, incarnata dal personaggio di Samuel L. Jackson (Gator) e la sua ragazza Vivian (Halle Berry). Sia Flipper che Gator vengono da una famiglia estremamente religiosa, in cui il padre è un pastore battista severo e irremovibile. Eppure l’oppressione religiosa rispetto ai costumi sessuali e la devastazione scatenata dalla droga nelle famiglie, faticano a interagire in maniera veramente originale. Anzi, appesantiscono il film di un’aura predicatoria che spesso lo fa sconfinare in momenti di puro imbarazzo. Questo nonostante il realismo con cui Lee ha voluto girare le scene. 

Samuel L. Jackson aveva frequentato una clinica di disintossicazione da droghe, per problemi personali, poco prima di iniziare a girare il film. Il Taj Mahal che si vede come luogo di ritrovo e di consumo di sostanze è l’autentico tetto sotto cui si ritrovavano i tossicodipendenti all’epoca. Per entrare dovette chiedere protezione al movimento Nation of Islam. Nonostante questo ricevettero diverse minacce sia il regista che l’attore protagonista Wesley Snipes.

Certo, Jungle Fever non sente i suoi 30 anni. Anzi, sembra girato oggi. Perché adotta gli stessi strumenti retorici, la stessa facile analisi sociologica che nella sensibilità odierna separa “buoni e cattivi” in maniera tranciante. Per denunciare il razzismo usa una rappresentazione stereotipica, e per questo è tagliente, ma anche banalizzante.

Jungle Fever appare quindi come un’opera ben radicata nel luogo e nel tempo che racconta, ma girata con una sensibilità a cui  gran parte del dialogo su questi temi si sta conformando oggi. Resta indimenticabile l’onnipresente colonna sonora di Stevie Wonder. Il film la adora ed è molto generoso nei suoi confronti, sparandola al massimo in qualsiasi scena. Si arriva quasi al limite del tormentone, soprattutto con la scena di apertura che si può tranquillamente ricordare come una delle sequenze di titoli di testa più brutte della storia del cinema.

Il film è dedicato a Yusef Hawkins, un giovane nero ucciso nel 1990. Si trovò vicino per caso a una giovane che aveva litigato con il suo ragazzo. La donna disse che il suo amante stava venendo a prenderla per fare ingelosire l’uomo. Fu organizzato un agguato punitivo di cui Yusef fu vittima inconsapevole. In Jungle Fever i due protagonisti si trovano in una situazione simile. Al posto di ragazzi di strada ci sono due poliziotti.

30 anni dopo la scena è ancora più inquietante. 

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