Jumanji (1995) è il film ideale per raccontare l'anno 2020
Rivisto oggi Jumanji offre immagini e riflessioni perfette per leggere il 2020. Un'analisi del film che contiene una teoria semiseria.
Quello del 1995, si intende.
Ma come vi è venuto in mente?
I social network sono diventati ormai il tavolo da gioco della socialità, riservando più spesso delusioni che soddisfazioni in una partita in cui alleati e avversari sono i commentatori quotidiani. Eppure ogni tanto le “bolle social” create dagli algoritmi riescono a mostrare un lato brillante.
Come se fossimo stati richiamati dai tamburi del gioco abbiamo riguardato il film (non fa mai male), nella speranza che gridare “Jumanji” il 31 dicembre possa veramente finire questo anno nero per il cinema (e non solo).
Da questa nuova visione è emerso che, a ben guardare, la storia dell'anno 2020 è perfetta per un seguito del Jumanji originale
“La partita non è ancora finita”
Quante volte abbiamo sentito il paragone tra la vita vera e un gioco? A seconda delle occasioni qualcuno (poeti? Cantanti? Insegnanti?) ha detto che la vita non è un gioco. Altre volte, per altre persone, invece lo è, e ci tocca giocare. Ecco, Jumanji appartiene alla seconda linea di pensiero. Ora che sei in ballo devi ballare, ma non prenderti troppo sul serio, divertiti nel frattempo, dice Joe Johnston allo spettatore attraverso i suoi personaggi. Perfettamente bilanciato tra commedia, film di formazione e stravaganza horror, Jumanji ripropone su pellicola l’esperienza di essere un bambino in un mondo ancora tutto da conoscere. E la realtà, di incognite, ne ha molte. Facile sentirsi, soprattutto oggi, in mano a un lancio di dadi.
Una cosa manca in questo Jumanji del 2020, ed è Robin Williams
Chi ha seguito la carriera dell’attore, scomparso nel 2014, sa cosa significa sentire la mancanza di Robin Williams. Dell’uomo, quanto dei suoi personaggi. Celebre per la sua comicità, Williams era in realtà anche un maestro nel commuovere. Va bene ridere, ma va bene anche essere tristi, fa parte del brivido di essere su questa terra. Williams l’aveva capito e lo diceva con il suo corpo e con la sua faccia ancora decenni prima che Inside Out sdoganasse la tristezza. Manca una figura come lui, come il suo Alan Parrish. Capace di guidare non nel gioco, ma nelle emozioni che travolgono i giocatori.
In Jumanji ci sono tanti affetti perduti, tanta solitudine.
Nel cinema per ragazzi degli anni ’90 l’emancipazione era spesso letta come un distacco traumatico dalla figura genitoriale. Assenza, abbandono, addirittura morte in questo caso.
I bildungsroman di oggi tendono invece ad esprimere la maturazione attraverso la comprensione. Ne è un esempio il magistrale incontro tra padre e figlio in Chiamami con il tuo nome.
Ma torniamo a Jumanji: Johnston traspose su pellicola, nel 1995m quel senso di solitudine giovanile che si prova ad affrontare un qualcosa che non si può controllare. Un sentimento quanto mai attuale in un anno caratterizzato da eventi e tragedie non solo fuori dal controllo delle singole persone, ma impossibili da prevedere o gestire anche dagli stati. A chi non sembra di essere davanti al quadrante del gioco una attesa della prossima mossa?
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Ora, non è certo il caso di scendere nel fatalismo, il paragone con l’oggi è, per forza di cose, superficiale. Eppure un Jumanji a tinte inquietanti come quello del 1995, potrebbe essere un’espressione molto più coerente con il presente delle versioni eccessivamente ottimiste e a tratti superomistiche del 2017 e 2019.
Colpisce infatti, rivedendo l’originale, come la paura dell’inizio del gioco venga scavalcata, a circa metà film, da una sorta di sadismo. Non è solo la necessità di finire il gioco che muove i personaggi a tirare i dadi ancora e ancora...Si intravvede in loro una certa curiosità nel capire cosa possa succedere dopo.
Un senso dell’avventura che mette in un angolo l’istinto di sopravvivenza.
Alan Parrish sfida il gioco, gli si contrappone fisicamente e moralmente. Nell’allegoria, Jumanji è visualizzato fisicamente da Van Pelt. Percepiamo il cacciatore come emanazione diretta del gioco. È qualcosa di più di un livello da superare, perché la sua presenza insegue per gran parte dell’avventura come figura autoritaria. È l’incarnazione di un concetto astratto (la partita con il destino) e per questo diventa avversario e simbolo di un dominio.
Ribellione contro il sistema… all’interno del sistema
Non solo Coronavirus, questo 2020 ha riservato anche grandi incertezze politiche oltre a movimenti civili di grande forza e impatto. Ecco, Jumanji parla (anche) di questo. Se leggiamo infatti il gioco come meccanismo coercitivo e i giocatori come l’elemento essenziale perché il gioco esista e prenda vita, diventa chiaro che la stregoneria a cui sono sottoposti i bambini non è altro che il meccanismo che regola società stessa.
Jumanji è costruito su un set di regole non troppo differenti da quelle che regolano le aspettative della middle class americana. Percorsi obbligati, ostacoli preimpostati nel percorso di vita dei giovani per orientarli nel proprio posto sulla scacchiera di un ingranaggio complesso. L’avatar, la pedina del gioco, è lo status quo.
Un dettaglio: i personaggi vogliono assolutamente uscire dal gioco, ma non vogliono vincere.
Vogliono solo arrivare alla fine della partita, ma non vogliono battere il sistema. Il set di regole a cui sono sottoposti non viene mai messo in discussione. Anzi, il gioco stesso inizia a offrire una forma di escapismo dai dolori della realtà, quasi appagante. È l’occasione di essere eroi nel proprio universo. Ma è solo un’illusione. È il gioco a vincere sempre. Vince quando il selvaggio Parrish, Robin Williams, alla fine viene reinserito nel percorso convenzionale della società e impostogli dal padre. Vince quando i bambini Judy e Peter perdono la possibilità di immaginare un mondo che non c'è e ritornano nel convenzionale gioco della società. Non sembra una follia rivedere in questo anche lo stesso dilemma dei movimenti civili, fiamma oggi incontrollabile, ma che potrebbe venire re-inglobata - e quindi spenta - nella normalità politica e il cui destino sembra più che mai incerto.
Sì ma il finale?
Difficile da credere, ma nemmeno la potente redazione di BadTaste sa come finirà il 2020.
Una cosa è certa: solo il cinema può offrire un finale consolatorio come quello di Jumanji.
Joe Johnston fa una gigantesca ellissi temporale negli ultimi minuti. Il gioco vince (ricordate il monito verso la fine: “a volte occorre tornare indietro”) i Parrish si dividono dagli Sheperd e ognuno ritorna nel proprio tempo. Il film, chiaramente, omette il racconto della vita che ne segue. Taglia le conseguenze del gioco. Tutto torna alla normalità fino a che le rispettive esistenze si rincontrano.
Ed è qui che il 2020 si rivela il seguito sbagliato di Jumanji. Perché a ogni lancio di dadi sembra arrivare una prova più difficile proprio come nel film. Ma né la partita né il montaggio cinematografico, ci offriranno mai il lusso di tagliare la pellicola e arrivare al momento in cui il gioco, dopo essere stato giocato, sistema le cose e regala il finale desiderato. Quello spetta a noi giocatori.