Judy, di Rupert Goold | Bad Movie

Il Bad Movie della settimana è Judy di Rupert Goold, pellicola che sta proiettando Renee Zellweger verso la vittoria del suo secondo Oscar contro la Scarlett Johansson di Storia di un matrimonio

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Spoiler Alert

La nostra analisi di Judy, di Rupert Goold, al cinema dal 30 gennaio

Donne sull'orlo di una crisi artistica

Il film di Goold, così vicino ad altre opere su donne collegate al lavoro artistico in un momento particolare della loro carriera, ci ha stimolato a mettere questo testo in relazione ad altri lungometraggi con donne che sono anche artiste in un preciso momento della Storia con la S maiuscola e della loro vita privata e pubblica. I quattro personaggi che abbiamo messo in relazione tra loro sono la cantante Christa Päffgen in arte Nico, il sex symbol Sharon Tate per come l'ha disegnata Quentin Tarantino, l'attrice-futura-regista Nicole Barber il cui primo nome da nubile faceva Ryder e, dulcis in fundo, la protagonista de Il Mago di Oz interpretata da Renée Zellweger.
Ogni film racconta una declinazione del femminile dentro un'industria dell'intrattenimento in epoche diverse, con regole peculiari a volte sovvertite dalle signore in questione o anche solo combattute o più drammaticamente sofferte fino alla fine dei giorni come nel caso dell'adorabile Judy Garland. Ma prima di lei...

Nico, 1988 (Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, 2017)

Nell'Europa di fine anni '80 si aggira una creatura sgraziata, puzzolente, tossica e genuinamente antipatica. Perché la Nico messa in scena da Susanna Nicchiarelli nell'omonimo film a inaugurare la sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia non è né la modella sex symbol chiamata “Nicoletta” da Mastroianni nella Roma de La Dolce Vita del 1960 né la femme fatale dark con il tamburello in mano nelle retrovie dei Velvet Underground nella New York di Warhol datata 1967. La Nico al centro di questa pellicola coraggiosa e quasi suicida da parte della Nicchiarelli vista l'epicità del soggetto è una signora decadente e decaduta restia all'uso del sapone pronta a volare a cavallo di una siringa di eroina come una strega strafatta da Manchester (“Mi piace perché mi ricorda la Berlino in macerie della mia infanzia” dirà carinamente agli attoniti inglesi inizialmente contenti di ospitarla) a Praga (infuocherà la serata di un gruppo di giovani cecoslovacchi sorpresi di ritrovarsela all'improvviso sul palco), passando per Anzio dove insisterà per poter bere (a grandi sorsate, ovviamente) del limoncello come agghiacciante accompagnamento di spaghetti scotti al pomodoro. Quelli organizzati per lei in questo contesto storico (la signora ha già pubblicato sei album da solista) sono concerti per quattro gatti e con sistemazioni di fortuna, eppure Nico sembra sguazzarci in tutta questa mestizia come se una vita di eccessi glamour necessitasse, in quel frangente storico, di un finale di partita altamente autolesionista. Attorno alla cantante in quei fatidici anni della sua vita troveremo squisiti manager britannici ammaliati da tanto regale e tenebroso marciume, musicisti sopraffini (una violinista rumena), un figlio anche più problematico e autodistruttivo della mamma (avuto da Alain Delon nel 1962 e mai riconosciuto dal padre), giornalisti pigri (in ogni conferenza stampa le domandano solo ed esclusivamente dei Velvet Underground e non della sua carriera solista) e un Europa in profonda transizione, tra edonismo reaganiano (Italia), rigore thatcheriano (Inghilterra) e febbrile angoscia pronta a scomparire per lasciare spazio alla speranza (i giovani cecoslovacchi, protagonisti con una Nico scatenata sul palco, perché tutti in crisi di astinenza: lei da eroina, loro dal rock come sfogo per ogni tipo di frustrazione). La Nicchiarelli è bravissima sia nel rappresentare la potenza evocatrice della musica (memorabile quella sequenza della sua seconda fatica La scoperta dell'alba in cui in una casetta borghese esplodeva alla tv Video Killed the Radio stars dei Buggles), sia nel sapere bene che il rock può essere qualcosa di spigoloso, maledetto e sinceramente sgradevole. Perfetta la prova attoriale della danese Trine Dyrholm e belle queste lenti così dure per creare un'immagine quasi scientifica. Nico, 1988 regala all'Italia la seconda vittoria consecutiva come Miglior Film dentro l'importante secondo concorso veneziano di Orizzonti a un solo anno di distanza dal trionfo del documentario di Federica Di Giacomo Liberami. Sarebbero poi arrivati anche 4 David di Donatello per Sceneggiatura, Suono, Trucco e Acconciatura.

Sharon, 1969 (C'era una volta a... Hollywood di Quentin Tarantino, 2019)

Sta spiccando il volo. Sharon Tate già era la più bella del reame ma ora la principessa è pronta per diventare regina. Fissata sessualmente con uomini che sembrano ragazzini ("Non ho mai avuto una possibilità" commenterà a questo proposito ironicamente il virile Re del Cool Steve McQueen), questa creatura di sognante perfezione fisica è adorata, protetta e coccolata dall'autore di C'era Una Volta a Hollywood dall'inizio alla fine di un film in cui la fa muovere come fosse sotto gli effetti di un incantesimo particolarmente piacevole. Lo star system? Se esiste è modellato a immagine e somiglianza della dolcissima star in questione e non da altri. Sharon non è circondata da produttori prevaricatori ma da un entourage composto da amici ed ex fidanzati di bassa statura che le fanno da amabili maggiordomi, ascoltano con lei la musica, la scorrazzano a cena o ai party mentre lei è perdutamente innamorata del regista del momento, rimane gioiosamente incinta e frequenta librerie di West Hollywood dove compra un'edizione antica di Tess di Thomas Hardy per il marito cineasta (Polanski ne avrebbe poi fatto un film non con lei ma con Nastassja Kinski nel 1979). Poi la scena clou: va a vedersi al lavoro, sul grande schermo (per controllare bene, si mette gli occhiali perché leggermente miope) dentro un cinema che proietta un film dove lei è non solo bella ma anche comica (guardate quanto è felice quando sente gli spettatori ridere nei momenti giusti) quando incontra Dean Martin e combattiva in una scena di kung fu frutto degli allenamenti con Bruce Lee. Il titolo della pellicola con la Tate nel cast che la Tate va a vedere in sala in italiano è il buffo Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm del 1968.

Nicole, 2019 (Storia di un matrimonio di Noah Baumbach, 2019)

È l'emancipazione della donna rispetto al ruolo paternalista del maschio tutelare. L'autore del film in un certo senso potrebbe parlare così sia del suo rapporto passato con Jennifer Jason Leigh (lanciata da un film in cui effettivamente faceva vedere le tette come la fittizia Nicole intitolato Fuori di Testa da libro e sceneggiatura di un giovane Cameron Crowe) che di quello presente con Greta Gerwig, tra i leader ufficiosi del #MeToo, partita anche lei come attrice, sceneggiatrice di lunghi fin dal 2007 e ora regista di successo, con recenti recriminazioni Oscar, con soli due film diretti intitolati Lady Bird (2017) e Piccole Donne (2019). Ma torniamo a Nicole. Stava diventando star hollywoodiana e poi ha deciso di recitare negli spettacoli teatrali off del marito Charlie Barber passando da Nicole Ryder alla signora Barber e da Los Angeles a New York. I due stanno per divorziare. Ma civilmente come vuole lui continuando a dirigere le operazioni o cruentemente come vuole lei rompendo di fatto le gerarchie non scritte della loro relazione? All'inizio del film piange solo lei, poi alla fine piangerà Charlie. Questo perché vedremo Nicole nei primi minuti in difficoltà dentro un ambiente completamente controllato del marito che la osserva dall'alto in basso anche quando i due tornano a casa prendendo la metropolitana. Poi Nicole cresce e, non senza vigliaccherie, scaglia contro Charlie un'avvocatessa spietata che deve aiutarla a capire definitivamente cosa vuole: tornare a Los Angeles, lasciare New York, crescere suo figlio in California e passare da attrice a regista ovvero da oggetto manipolato ad arte a soggetto manipolatore. Non sarà facile per lei giungere così spietatamente a patti con sé stessa ma alla fine la vedremo candidata a un Emmy, con un uomo più giovane di lei al suo fianco, così in controllo della sua nuova vita e casa losangelina da concedere all'ex marito un giorno in più con il figlio precedentemente conteso. La lasciamo in piena salute fisica, con il look sgargiante del David Bowie di Let's Dance mentre Charlie è diventato un fantasma. La chiusa è lei che con la consueta abilità allaccia le scarpe all'ex marito distratto (buffa coincidenza: Scarlett Johansson compie questa stessa azione anche in Jojo Rabbit per cui, sempre quest'anno, è stata candidata all'Oscar come Miglior Attrice Non Protagonista).

Judy, 1969 (Judy di Rupert Goold, 2019)
Tratto dal musical End of the Rainbow di Peter Quilter. La strada dei mattoni gialli del Mago di Oz ha condotto Judy Garland in un luogo in cui lei non ha più un tetto sopra la sua testa. Il film di Goold si apre subito con la più amara delle sorprese: questa madre non ha più un domicilio dove poter accudire i figli del suo quarto e penultimo matrimonio. È il contrario del film di Baumbach: il marito chiede con sempre maggiore forza l'affidamento dei figli partendo dal periodo scolastico e poi allargandosi. L'idea di Goold-Quilter, molto interessante, si pone tra Nico, 1988, Storia Di Un Matrimonio con un pizzico anche di C'era Una Volta a Hollywood. Vediamo la trasferta londinese di Judy Garland nella fine del 1968, con licenze poetiche nella sceneggiatura circa la cronologia del quinto matrimonio con il dodici anni più giovane di lei Mickey Deans. C'è la tossicodipendenza che abbiamo riscontrato in Nico, 1988 ma nel caso di Judy Garland è un'abitudine frutto dello star system che da piccola, a partire dall'esperienza sul set de Il Mago di Oz, la costringeva a imbottirsi di pillole per non dormire, mangiare e infine coricarsi quando non voleva farlo più. Un attacco senza pietà all'equilibrio psicofisico di un essere umano senza pensare troppo alle conseguenti dipendenze nella sua vita da adulto. Dimenticate l'ordine e disciplina amato dai Fratelli Coen in Ave, Cesare! (2016) in cui lo studio system e lo star system sono l'armonica concretizzazione di una logica esistenziale legata alla creazione e sfruttamento dell'immaginario collettivo che per i fratelli nichilisti Joel e Ethan Coen è l'unico sistema portatore di senso che può fronteggiare l'onnipresente caos attraverso figure dall'alone quasi biblico come il "fixer" attento a salvare l'immagine di Hollywood Eddie Mannix. I Coen facevano vedere una cena organizzata dagli studios tra fidanzatini obbligati d'America molto serena in cui lui (il futuro Han Solo Alden Ehrenreich) svelava a lei di non avere in realtà i denti e lei mostrava a lui che effettivamente sapeva fare qualcosa con il lazo (la stessa enorme soddisfazione provata da Sharon Tate nel momento in cui si accorge di essere apprezzata per il suo lavoro nella memorabile scena di C'era un volta a Hollywood). La Judy Garland del film di Goold è quasi costretta ad esibirsi a Londra come Rick Dalton in C'era una volta a Hollywood viene convinto dall'agente interpretato da Al Pacino ad andare in Italia, o Spagna, per lavorare agli spaghetti western. È un esilio, una piccola sconfitta dell'artista Usa senza uso a casa, costretto ad emigrare. Una volta a Londra, vediamo Judy soffrire una forte dipendenza da vari tipi di pillole, frutto delle diete folli subite in giovane età che vediamo in un montaggio alternato rispetto al presente di fine 1968-inizio 1969. Questa bambina (Judy aveva 16 anni durante Il Mago di Oz) non poteva mangiare le patatine fritte con Mickey Rooney, pensava che fossero realmente fidanzati (quando invece era una relazione creata per lo star system) e aveva il produttore Louis B. Mayer che la toccava poco sopra il seno per mostrarle precisamente dove fosse il cuore tra insulti ("Sei una zotica culona dai denti storti di Grand Rapids") e minacce ("Non rallentare mai più un mio film"). Il centro di Judy è dunque la dipendenza sviluppata dalla Garland in giovane età per poter sostenere un certo tipo di prestazione fisica (questo tema forte della somministrazione indiscriminata di pillole dentro la società nordamericana lo troviamo anche in drammi sportivi o tragedie familiari come in Waves di Trey Edward Shults) come ci ricorda il via vai tra sequenze del 1939 (molto brava Darci Shaw nei panni di una fresca e combattiva Judy) e fine 1968-inizio 1969 con l'appena quarantaseienne Garland arrivata in show a Londra per salvare una carriera quasi completamente finita dall'altra parte dell'oceano. Questa Judy 1969 ci ricorda anche la Nico 1988 laddove i momenti di faticosa astinenza le permettono di entrare in connessione con il proprio pubblico a un livello di maggiore intensità rispetto al canonico affetto. Esempio concreto: Judy entra nel dramma individuale e collettivo dei gay inglesi imprigionati per il loro gusto sessuale nel 1964 laddove Nico percepiva la voglia di ribellarsi con il rock'n'roll dei giovani praghesi vittime dell'ormai declinante Patto di Varsavia. A differenza della Nicole di Scarlett Johansson, che diventa sempre più forte e potente con il passare dei minuti, noi vediamo Judy sempre meno brillante ai concerti presso il locale Talk of the Town arrivando fino a una mancata esecuzione di Over the Rainbow con il pubblico che la aiuta ad arrivare in fondo alla canzone.

Conclusioni
Le due grandi rivali di questo Oscar per Miglior Attrice Protagonista sono proprio Scarlett Johansson nel ruolo di Nicole in Storia di un Matrimonio di Baumbach e Renée Zellweger in quello di Judy nell'omonimo film di Ruper Goold. La Johansson sembra quasi un mix perfetto dei corpi di Bibi Andersson e Liv Ullmann fin dalla prima immagine in cui vediamo il suo volto acqua e sapone procedere inesorabile verso la macchina da presa. Questa è un'attrice senza orpelli, ci dice Baumbach con quell'entrata in scena prepotente che infatti richiama lo scarno divismo svedese delle muse di Ingmar Bergman. Il procedimento della Zellweger è esattamente l'opposto. La sua Judy è sempre stratruccata, una specie di maschera a volte grottesca, perché ancora vuole essere giovane in un mondo in cui a 46 anni sei da buttare via (non dimenticate mai che tra i 40 e i 60 anche Meryl Streep se l'è passata malissimo per ruoli e carriera da quelle parti). Eccola la nostra Dorothy de Il Mago di Oz diventata una signora piena di tic alle mani (sciocca le dita, armeggia con accendini zippo, se le sfrega in continuazione), bruciata a livello psicologico, con le vene in risalto sulle braccia spolpate, la pelle raggrinzita, un umore rancoroso ("Nella mia intera infanzia penso di aver dormito 5 ore"), inaffidabile, vittima di maschi prevaricatori, adorata da una comunità gay che si riconosce nella sua fragilità, incapace di trovare un nuovo amante che finalmente la accudisca e protegga. La Zellweger canta, eccelle in un'aria di costante imbambolamento tra mille rughe che la rendono genialmente incartapecorita come una delicata rosa esposta alle intemperie del tempo, senza la protezione di mura solide capaci di tenerla al caldo (infatti non ha casa). Il film riesce molto bene nel farla vedere sempre senza dimora, tra stanze d'albergo, pub, strade fredde, taxi che quasi non riesce a pagare, ristoranti e visite in domicili altrui (la splendida scena a casa della coppia gay). Potrebbe tutta questa sofferenza, unita al grande personaggio realmente esistito al secolo Judy Garland, portarle il secondo Oscar della carriera dopo quello da Non Protagonista per Cold Mountain di Anthony Minghella? Al momento pare proprio di sì, come dire che il personaggio femminile uscito dalla penna di Baumbach, e dal talento della Johansson, sia troppo sconosciuto alle cronache (di fatto... non esiste), inespugnabile e vincente per portare a casa la statuetta? Veramente possiamo credere al fatto che un ruolo più patetico e sofferente come quello della Judy Garland del film di Goold sia più papabile per condurre un'artista all'Oscar per Miglior Attrice Protagonista? Può essere ma a ben pensarci sarebbe l'ennesimo risultato del vecchio star system.
La ragazzina che chiedeva entusiasta l'autografo a Clark Gable finita per essere un'amabile tossica pure alcolizzata in quel di Londra dove si sposerà per la quinta volta, risulta essere una figura più adatta in ottica Academy Award rispetto a un'attrice fittizia hollywoodiana sdoganata dal mondo dell'arte dalle regie off del marito teatrante newyorchese che torna prepotentemente a casa a Los Angeles, diventa regista candidata a un Emmy, si concede la clemenza di regalare un giorno in più al consorte con il figlio in comune e finisce allacciando le scarpe all'ex marito.
Meglio la tradizione dell'impersonare una celebrità tragica che non la modernità di incarnare un ribaltamento di ruoli dentro una coppia di artisti dello spettacolo oggi?


Lo scopriremo solo il 9 febbraio prossimo.

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