Joker: Folie à Deux e la difficoltà di avere un villain come protagonista

In occasione dell'uscita di Joker: Folie à Deux, ragioniamo insieme sul ruolo del villain nel primo film di Todd Phillips

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Quando uscì nel 2019, Joker divenne subito una sorta di film di culto. Il thriller diretto da Todd Phillips ha saputo portare in scena un personaggio tormentato e drammatico, capace di fare breccia nel cuore di moltissimi spettatori in tutto il mondo. Un successo supportato anche dalla critica, che ha permesso alla pellicola di vincere due Golden Globe, due Premi Oscar e il Leone d’oro alla settantaseiesima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Certo, qualcuno si è lamentato della scarsa attinenza con il Joker dei fumetti targati DC Comics, ma la ricezione generale è stata enormemente positiva.

Contro ogni aspettativa (e contro ogni affermazione da parte del regista), la storia di Arthur Fleck non sembra però essere ancora conclusa. A partire dal 2 ottobre, infatti, è disponibile nei cinema Joker: Folie à Deux, nuova fatica del regista statunitense che, questa volta, ha deciso di virare verso il musical. Nel tentativo di replicare il successo del passato, il film è stato presentato in anteprima alla succitata mostra del cinema di Venezia, ricevendo però reazioni contrastanti. Qualcuno ne ha apprezzato l’azzardo, mentre altri hanno trovato l’operazione un tentativo fallimentare di Phillips di dare vita a un’opera autoriale. In ogni caso, come sempre: al pubblico l’ardua sentenza.

Dal canto nostro ci rendiamo conto di quanto sia complesso lavorare su un personaggio come Joker. Dopotutto stiamo parlando di uno dei villain più terrificanti legati al mondo di Batman. Un personaggio che, come raccontato nel fumetto “The Killing Joke”, parte da un ipotetico passato tragico, ma che ormai ha perso del tutto la propria umanità. Un criminale disposto a uccidere, massacrare e torturare i più deboli, senza ripensamenti di alcun tipo. Negli ultimi anni l’industria dei film mainstream sembra però aver dimenticato come si scrivono i “cattivi”. C’è il costante desiderio di voler dare loro una motivazione e una “scusa” per essere tali. Ma siamo sicuri che sia la strada giusta da voler percorrere?

La paura del male

Siamo d’accordo tutti che un buon villain deve essere minaccioso per poter adempiere correttamente al proprio ruolo? Bene. Premesso che la minaccia è una sorta di anticipazione del dolore fisico o psicologico, possiamo davvero dire che il personaggio di Arthur Fleck incarni questa caratteristica? La verità è che Todd Phillips ha preferito inserire il protagonista del suo Joker in un contesto più minaccioso del personaggio stesso, permettendogli così di passare, per certi versi, dalla parte del bene.

Ammettiamolo: abbiamo tutti parteggiato per il Joker di Joaquin Phoenix. Abbiamo tutti sperato che il povero Arthur potesse riscattarsi e prendersi quello che gli spettava. Ecco, già questa speranza e questo atteggiamento sono sinonimo di una bizzarra comunicazione del male da parte dell’opera. Eppure Todd Phillips ci ha provato, in un paio di momenti, a far passare Arthur completamente dall’altra parte della barricata. Basti pensare alla scena della metropolitana. I primi omicidi non sono altro che legittima difesa a un tentato omicidio, ma è quando Arthur insegue l’ultimo dei teppisti e gli spara alla schiena che capiamo che il personaggio non ha più alcun rispetto nei confronti della vita. Nonostante questa azione, però, il resto del film continua a farci provare compassione nei confronti di Joker, senza riuscire più a trasmettere allo spettatore il fatto che il protagonista sia un “cattivo”.

Come già accennato, questo approccio alla scrittura dei villain sta comparendo un po’ troppo spesso in quel di Hollywood. Ne sono un esempio i vari cattivi dei film d'animazione Disney o le recenti traduzioni di personaggi come Malefica o Crudelia De Mon, incapaci di replicare la malvagità insita nelle versioni originali e poco sensati nel ruolo di protagonisti. Dopotutto ammettiamolo: chi vorrebbe vedere un film con protagonista una donna decisa a squartare dei cuccioli per farsi un vestito?

La gestione della sofferenza

Se c’è un’emozione alla quale è facile associare la figura del Joker di Joaquin Phoenix è senza dubbio la sofferenza. Una sofferenza prolungata, che ci accompagna dall’inizio alla fine del film. O meglio: fin quasi alla fine. È cosa nota, infatti, che se un protagonista tenta di non lasciarsi sopraffare dal dolore anche dopo reiterati drammi, lo spettatore comincerà a provare pena nei suoi confronti. Al contrario, come affermato dal celebre autore Orson Scott Card nei suoi molteplici manuali di scrittura, “il personaggio che piange non farà piangere il lettore”. Il finale del Joker del 2019, con il lungo monologo di Fleck durante lo show di Murray Franklin, trasforma il personaggio da “sofferente” a “patetico”, allontanandosi ancora più dalla buona scrittura per un villain.

Per non parlare della sequenza successiva, nella quale il Joker passa dall’essere un personaggio commovente diventato patetico a “sacrificarsi” e diventare una sorta di icona contro il mondo cattivo che lo circonda. Nulla di sbagliato, sia chiaro, ma ancora una volta questa scelta non funziona se lo scopo è quello di tratteggiare un vero e proprio villain. Avrebbe avuto senso se il mondo non si fosse dimostrato più negativo del protagonista, permettendoci di assistere all’ascesa di un folle convinto di avere tutti contro e di non essere compreso. Il problema, in Joker, è che è davvero così. Sono davvero tutti contro Arthur Fleck e davvero lui è un personaggio incompreso. Questo, alla fine del film, non fa di lui il clown del crimine che hanno imparato ad amare i lettori dei fumetti, ma una sorta di martire che ha deciso di combattere contro il marciume della società.

E diciamolo: non c’è cosa più sbagliata del mero populismo associato al male travestito da bene.

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