John Wick ha il dono della sintesi

John Wick è un film che rispetta alla perfezione la prima regola del cinema: mostrare, non raccontare

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John Wick è su Netflix

“Cinema” significa letteralmente “movimento”, e il vantaggio che la settima arte ha sempre avuto sulle sei precedenti è proprio questo: rispetto alla scrittura e alle altre visive ha il controllo sia dello spazio e del tempo, e grazie al supporto delle immagini e senza il limite della loro staticità, può raccontare storie senza bisogno di affidarsi (troppo) alle parole. Il cinema migliore – o meglio, senza giudizi di valore, il cinema più puro e primigenio – è quello che mostra quello che vuole narrare, spiegandolo il meno possibile. E pochi film degli ultimi anni sono in questo senso virtuosi quanto lo è il primo John Wick, e in particolare la prima mezz’ora del primo John Wick.

John Wick è diventato prima un culto, poi un caso, infine un intero universo cinematografico (e non solo), principalmente grazie al fatto di essere un film action come nel 2014 se ne facevano ormai pochissimi, quantomeno all’interno del circuito hollywoodiano delle grandi star. Diretto dall’ex stuntman di Keanu Reeves in Matrix Chad Stahelski, era coreografato, diretto e montato da qualcuno che sapeva come organizzare una scena d’azione leggibile e coinvolgente, perché le girava di mestiere. Rispetto alla strategia Marvel del fallo di confusione, ma anche rispetto all’action sotto steroidi e pieno di cavi e CGI reso popolare proprio da Matrix, John Wick recuperava il rigore e la chiarezza dei vecchi film di arti marziali e li coniugava con un’iperstilizzazione da neo-noir post-uscita di Drive. Il risultato era un film action guidato da una superstar che non sacrificava mai la componente d’azione e anzi tornava a renderla centrale in un thriller dopo anni di oblio.

John Wick Keanu

Il fatto che in John Wick Keanu Reeves ammazzi vagonate di persone senza neanche versare una goccia di sudore ha però, anche con gli anni, quasi fatto passare in secondo piano quanto il film sia una masterclass di sintesi cinematografica, e quanto in particolare il primo atto sia una mezz’ora da manuale del cinema di come raccontare una storia, e tratteggiare un intero universo, usando solo poche decine di parole, le immagini giuste e la fondamentale arte del montaggio. La storia la conoscete: John Wick è un ex assassino al soldo della mafia russa che si è sposato e ha mollato la vita criminale; la moglie muore di cancro, lasciandogli in eredità solo tanti ricordi e il cagnolino più puccioso di questo millennio; la mafia russa vuole comprare la macchina di John Wick, che però è ancora in lutto e risponde male; la mafia russa va a casa di John Wick, gli ruba la macchina, gli ammazza il cane e lo lascia malmenato e mezzo morto; John Wick si risveglia incazzato come una biscia e per vendicarsi fa una strage.

Tutto quello che succede fino a “incazzato come una biscia” succede in 28 densissimi minuti nei quali, se escludiamo un paio di monologhi, vengono pronunciate meno di 100 parole, la maggior parte delle quali rivolte da John al cane. Eppure in meno di mezz’ora Stahelski ci conduce per mano nel mondo di John e ci mostra, o ci fa intuire, tutto quello che ci servirà per capire il resto del film.

Si apre in medias res, con un Keanu Reeves insanguinato che guarda un video della moglie; scoprire dove si colloca questa cold open nell’arco narrativo del film è il primo giochino che ci viene proposto da Stahelski. La storia d’amore tra John e Helen viene riassunta in un training montage (marriage montage?) che non indugia mai sui dettagli più morbosi ma dipinge il lato umano del protagonista con pochi, naturalissimi tocchi. Scopriamo l’attenzione ai dettagli di John, il suo amore per la sua macchina, e cominciamo a intravedere la passione di Stahelski per le inquadrature a effetto (si veda quella del funerale di Helen). Willem Dafoe ci viene presentato sotto forma di silhouette, di profilo, sotto la pioggia: avete mai visto una persona inquadrata così in un film che NON fosse un criminale, o comunque adiacente a quel mondo?

E via così: la scena successiva, una festa a casa Wick nella quale gli ospiti si divertono sullo sfondo, sfocati, e John guarda malinconicamente fuori dalla finestra, in primo piano, ci racconta come il Nostro abbia reagito alla morte della moglie. L’arrivo del cane, accompagnato da una lettera della defunta, è l’apice del simbolismo, e anche il genere di figura che, in un film meno coraggioso, avrebbe accompagnato l’eroe fino ai titoli di coda. E invece John Wick è anche un film crudele e sovversivo: i pochi minuti di interazione tra Keanu Reeves e la povera Daisy non ci preparano allo shock che sta per arrivare, ma sono una garanzia del fatto che quando arriverà ci schiereremo immediatamente con John, senza dubbi o remore morali – il modo migliore per farci accettare a cuor leggero la strage sta per arrivare.

Quale mostro ucciderebbe mai un animale così tenero?

cane

Il meglio di questo primo atto, però, arriva dopo la morte di Daisy, durante i dieci minuti circa nei quali John Wick finisce relativamente in secondo piano e cominciamo a conoscere il resto del suo universo. È qui che arriva il secondo grande monologo esplicativo, a opera di Viggo Tarasov/Michael Nyqvist, che spiega finalmente perché tutto il mondo sembra avere paura di John Wick. La meraviglia non è tanto il monologo in sé quanto tutto quello che arriva prima: Iosef Tarasov (Alfie Allen) ha fatto qualcosa che non doveva fare, e tutti quelli che lo scoprono reagiscono come se avesse appena annunciato di volersi suicidare. Alla gente basta sentire le parole “John Wick” per tremare di paura – a tutta tranne che al povero Iosef, che non sa, non si rende conto del disastro che ha combinato.

John Wick ci viene presentato come un signor nessuno, un anonimo borghese che vuole solo godersi la sua solitudine ed essere lasciato in pace. Ma il modo in cui un intero universo criminale reagisce alla sua semplice presenza ci dice che questo uomo senza qualità nasconde qualcosa, qualcosa di abbastanza potente da terrorizzare anche il capo della mafia russa. È una tensione costante verso la rivelazione, che arriva peraltro nel modo migliore possibile: Viggo spiega al figlio che ha appena rubato la macchina, e ucciso il cane, dell’Uomo Nero, e per riassumere cosa significhi tutto questo pronuncia l’ormai storica frase “una volta l’ho visto uccidere tre persone con una matita”.

Puj pum

Arrivati a questo punto non serve altro: sappiamo chi è John, sappiamo che cosa faceva e perché ha smesso di farlo. Sappiamo perché, seppur controvoglia, dovrà tornare a farlo, e tifiamo per lui. E a quel punto siamo disposti ad accettare quello che succede nei sessanta minuti successivi: la glorificazione di un assassino talmente letale che sembra dotato di superpoteri, una clamorosa one man army che sembra essere capace di schivare le pallottole anche senza controllare la Matrice e che, di fronte alla perdita violenta di tutto ciò che gli rimaneva nella vita, decide di reagire amplificando la violenza e dichiarando guerra al genere umano, partendo dalla mafia russa. E tutto questo usando meno di un decimo delle parole che ci sono servite per arrivare fin qui.

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