Jimmy Bobo – Bullet to the Head, il braccio ultraviolento della legge

Jimmy Bobo – Bullet to the Head è un thriller urbano con sprazzi di western e spruzzi di sangue in grande quantità.

Condividi

Questo speciale su Jimmy Bobo fa parte della rubrica Tutto quello che so sulla vita l’ho imparato da Sylvester Stallone.

Ci sono alcune costanti nella carriera di Sylvester Stallone, certi tratti comuni a tutti i suoi personaggi, una certa visione della vita e del successo – e ovviamente i buffi nomi italoamericani che vengono affibbiati ai suoi personaggi, da quelli più plausibili (Nick Martinelli, Marion Cobretti) a quelli più fantasiosi (Angelo Provolone, Gerald Cavallo). Nessuno, però, potrà mai battere il soprannome di James Bonomo, protagonista del film che porta fieramente il suo nome nel titolo, come se non si accorgesse di quanto sia ridicolo: Jimmy Bobo – Bullet to the Head, che a fronte di questa scelta clamorosa e assurda è anche uno dei più film con Stallone più francamenti violenti, spietati e amorali.

È, e magari ve ne ricorderete perché Jimmy Bobo – Bullet to the Head venne presentato al Festival di Roma alla presenza sia del regista sia del protagonista, una collaborazione tra Stallone e Walter Hill, uno dei più grandi autori del cinema americano moderno che a differenza di tanti suoi omologhi non si è mai tirato indietro quando si trattava di divertirsi senza troppo impegno, di giocare con il genere e con le sue regole senza per forza provare a stravolgerle o rivoluzionarle, ma semplicemente a metterle in scena nel modo più efficace e divertente (nel senso di “che intrattiene”, non per forza di “che fa ridere”) possibile.

Si annuncia, in maniera neanche troppo sottile, come un western urbano: le prime sequenze, ambientate come tutto il film nella fittizia Crescent City e che per atmosfera valgono da sole il prezzo del biglietto, ci parlano di una classica giungla urbana ma la accompagnano con una colonna sonora tipica da vecchio West. In realtà si tratta più che altro di una questione superficiale e puramente estetica: Jimmy Bobo non ha tutte le stimmate del western, è un film di persone più che di paesaggi, non ha nulla a che fare con la solitudine (se non tangenzialmente, e in quel modo che è comune anche a tanti thriller) ed è più che altro quello che potremmo definire un buddy cop andato a male.

Non in senso dispregiativo, ovviamente. Ma le regole del buddy cop, genere che Walter Hill ha peraltro contribuito a inventare con 48 ore, prevedono un certo tipo di rapporto tra i due protagonisti, un arco: odio iniziale, avvicinamento dovuto alle circostanze, crescita di una forma di rispetto reciproco (che spesso passa anche per l’inevitabile momento in famiglia) e, alla fine, la nascita di un’amicizia un po’ particolare ma solida. In Jimmy Bobo – Bullet to the Head, invece, a collaborare sono un killer professionista e un poliziotto, e se è vero che ora della fine del film i due hanno trovato un modo quantomeno per non spararsi in faccia appena si vedono, è anche vero che rimangono distanti fino all’ultimo momento, separati da un muro invisibile che solo le fantasie da commedia potrebbero far crollare.

E Jimmy Bobo non è una commedia, anzi. È un thriller pieno d’azione e violentissimo, che racconta di fatto la scalata dei due protagonisti alla piramide di potere che controlla Crescent City: prima i pesci piccoli, poi gli intermediari, infine chi comanda, e ha in pugno il controllo dell’intera città. I gradini vengono saliti a pistolettate e calci in faccia, e il tentativo di usare il poliziotto Taylor come contraltare etico del perfettamente amorale Jimmy Bobo funziona fino a un certo punto: oggi Sung Kang è un volto noto e molto amato grazie a Fast & Furious, ma il carisma non è purtroppo retroattivo, e qui il suo viene completamente annullato da quello dei suoi compagni di set.

C’è un Jason Momoa già in versione “villain che si arriccia i baffi” come ultimamente gli capita sempre più spesso, ma non ancora del tutto scatenato; c’è un viscidissimo Christian Slater e un assolutamente impeccabile Adewale Akinnuoye-Agbaje. E soprattutto c’è Sly, che per una volta sembra divertirsi a interpretare quello che non si fa problemi a piantare una pallottola in testa a chiunque senza che questo lo renda un eroe: Jimmy Bobo – Bullet to the Head è un film cinico che ha per la vita umana la stessa considerazione che ha per la sobrietà negli stacchi di montaggio – e stiamo parlando di un film che usa cinque o sei volte delle finte bruciature digitali e una valanga di tendine più old school della faccia di Sly.

In tutto questo ben di Dio, che Hill lascia libero di esprimersi come meglio crede, il povero Sung Kang viene un po’ schiacciato, con l’effetto di affievolire notevolmente l’impatto della favola morale che si nasconde (neanche troppo bene) sotto la trama principale. Ne risulta un film persino freddo, chirurgico nel mettere in scena la distruzione di carne umana e oggetti di vario tipo e dimensione. Sembra a tratti di vedere, filtrato sotto tonnellate di anni Settanta, un presagio di certe atmosfere che faranno anni dopo la fortuna di John Wick.

Detto tutto questo, Jimmy Bobo – Bullet to the Head non è il film più indimenticabile della carriera di Stallone, anche e soprattutto perché non vuole esserlo. Non arriveremmo a definirlo “modesto”, ma è sicuramente un film conscio dei suoi limiti e dei suoi confini e le cui ambizioni non si estendono oltre i suoi novanta minuti di durata (vi ricordate quando i film non erano tutti lunghissimi?). A volte basta così: non tutti i film hanno l’obbligo morale di essere indimenticabili.

Continua a leggere su BadTaste