Isao Takahata, genio dell'arte del racconto, è stato anche più determinante di Miyazaki

Se ne è andato uno dei più grandi rivoluzionario della narrazione audiovisiva nipponica, un maestro della narrazione che ha influenzato tutti

Critico e giornalista cinematografico


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Hayao Miyazaki è la star del Ghibli, il poster boy capace di fare film pazzeschi che stupiscono e spiazzano, quello che disegna, ha idee visive fuori di testa, vince i premi e tutto il resto. Isao Takahata è stata invece la spina dorsale di tutto questo, l’altra faccia della medaglia del Ghibli, quella più audace e narrativa, quella più cinematografica che d’animazione. Non ha mai preso una matita in mano, non era un disegnatore, era un regista che si è dato all’animazione, non faceva film per poter disegnare certe scene (motivazione n.1 dietro ogni opera di Miyazaki) ma per raccontare storie. E diamine se era bravo!

È molto difficile ora, data la vicinanza ad un gigante come Miyazaki, rendere l’importanza di Takahata, facilmente il confronto lo porta ad essere il minore dei due. Invece molto di quello che apprezziamo nel primo è frutto dell’influenza del secondo, molto di ciò che ci stupisce in La Principessa Mononoke, La Città Incantata e Porco Rosso nasce nelle opere di Takahata che hanno influenzato Miyazaki. Di certo non ha avuto il medesimo successo (per quanto abbia goduto comunque di un successo immenso) ma quello che va considerato non è solo quanto la sua presenza sia stata influente per Miyazaki, ma quanto la sua presenza e il suo lavoro costituiscano l’anima stessa dell’animazione nipponica tutta. Isao Takahata merita un posto per il quale non ha concorrenti: in un’industria di incredibili disegnatori, lui era un narratore puro, un rivoluzionario.

Isao Takahata nei circa 20 anni antecedenti al suo debutto al cinema (c’è stato in realtà un film prima della tv, nel 1968, ma ci arriviamo dopo), ha creato l’animazione nipponica per la televisione come la conosciamo. Ha iniziato imponendo lui e il suo socio, Miyazaki, sulla prima serie di Lupin III (lasciando poi ad Hayao la seconda) e ha creato con lui e il loro studio di allora Heidi, che è stata la fondazione della fascinazione dell’animazione nipponica per il mondo ottocentesco europeo (volevano fare Pippi Calzelunghe in origine ma dalla Svezia arrivo il diniego allo sfruttamento). Ha creato uno stile di disegni e una maniera di lavorare con il drammatico (per non dire tragico) sconosciuto a Miyazaki e a chiunque altro all’epoca facesse animazione. Ha lavorato su personaggi femminili clamorosi come per l’appunto Heidi ma anche Anna Dai Capelli Rossi e poi ha contribuito pesantemente ad un progetto puramente miyazakiano come Conan Il Ragazzo del Futuro. Ognuna di queste impresse era semplicemente folle e lontanissima da quello che erano i lidi sicuri (l’azione, il romanticismo, la fantascienza dei robot o dei mostri).
E questi sono solo i credits televisivi!

Non era interessato al pacifismo, all’ecologia e ai mezzi motorizzati come il suo amico e collega al Ghibli ma agli esseri umani. Isao Takahata era sicuramente meno “artista”, non viveva incredibili contraddizioni risolte con colpi di vero genio come Miyazaki, ma era un fenomeno dell’introspezione, un mago del racconto che nei suoi anni d’oro (1984-1999) ogni cosa che toccava diventava oro. Quando è stato il momento di fare il grande passo verso il cinema (lì chiamato da Miyazaki nell’allora appena nato Studio Ghibli) ha letteralmente cambiato tutto. Anche più di Miyazaki stesso.

Una Tomba Per Le Lucciole, ad oggi il suo film più conosciuto ma allora il suo debutto con il Ghibli e il suo ritorno al cinema animato dopo 20 anni di tv, era impensabile in precedenza. Un film animato così serio e per nulla fantasioso, che abbia la fierezza del dramma e la fantasia dei cartoni, che fosse centrato su un tema più che drammatico apertamente tragico e che affrontasse la morte, ovunque, dalla prima all’ultima scena, senza distogliere lo sguardo ma anche senza essere violento o vietato ai minori. Quello è il colpo imprevedibile e complicatissimo del film: con un tono digeribile da chiunque e una narrazione così leggera da essere chiara come l’acqua di montagna, quel film metteva in scena l’indicibile e il terribile.

Quei due bambini senza genitori in un Giappone in piena guerra non sono lontani dalla sua vera vita (da bambino è sopravvissuto miracolosamente ad un bombardamento), ma subito diventano personaggi universali. Come i grandi narratori Takahata non ha paura del dolore e gira il coltello nella piaga senza mostrare compiacimento, ma affrontando con dignità il vero dolore. Aveva 53 anni quando quel film uscì, un uomo pienamente maturo che confeziona un capolavoro guardandosi indietro.

Da lì non si è mai fermato nonostante alti e bassi. Ha lavorato sulla commedia con I miei vicini Yamada e poi è tornato al cinema dei ricordi con Pioggia di Ricordi, che nonostante non sia noto come Una Tomba Per Le Lucciole è forse il suo capolavoro.

Con quel film del 1991 Takahata riscriveva di nuovo le regole del cinema d’animazione, raccontando una storia di una donna lavoratrice, un’impiegata di città di trent’anni, categoria per la quale nessun altro al cinema mostrava interesse, figuriamoci nell’animazione! Due anni dopo il più grande successo dell’animazione nipponica (Akira) Takahata scriveva un capolavoro di intimismo che sta agli antipodi di quel genere e afferma lo stato di forma splendente dei cartoni giapponesi, capaci di spaziare in tutti i generi fino a raccontare di una donna che torna nei luoghi in cui è cresciuta ed è assalita dai ricordi e dalla vita che non ha vissuto. Praticamente Ingmar Bergman animato, senza cedere un passo a quella capacità evocativa.

Giocato tra oggi e ieri, tra lei bambina e lei adulta, con una serie di soluzioni narrative commoventi e un finale che meriterebbe di stare nell’alveo dei più grandi di sempre, Pioggia di Ricordi è il film che andrebbe visto ora che Takahata ci ha lasciato, per capire la grandezza e l’influenza che la sua penna (e non la sua matita, che non ha mai preso in mano) ha avuto su Miyazaki, e da dare a Takahata quel che è di Takahata. Geniale nei successi ma più grande ancora negli insuccessi.

Perché quell’esordio sfortunato nel cinema del 1968, quel primissimo film il cui flop fece disamorare Takahata e Miyazaki del cinema e li gettò nelle braccia della tv, è La Grande Avventura del Piccolo Principe Valiant, l’origine dell’animazione nipponica per come la conosciamo oggi. Nessuno all’epoca lo andò a guardare, visto adesso è pieno di difetti e problemi di ritmo, ma ha esattamente tutto quello che si ritrova in qualsiasi cartone animato nipponico degli anni ‘70, ‘80 e ‘90. I personaggi, le relazioni parentali, e quelle che stringono tra di loro, il ruolo del cattivo e le soluzioni di disegno, animazione e doppiaggio, tutto è già come lo troveremo nelle serie animate per la tv di maggior successo. È di fatto lo scheletro di quella forma di produzione, cristallizzato per gli anni a venire. Ed è di Isao Takahata, con l’animazione di Hayao Miyazaki, i golden boys per la prima volta insieme in una grande impresa che cambiano tutto anche se nessuno (all’epoca) lo capisce.

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