Ip Man, una lezione di storia cinese a ritmo di mazzate

Ip Man è un biopic dedicato a una figura storica della Cina del Novecento, che ne racconta la vita e soprattutto le botte

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Ip Man va in onda su Rai 4 e Rai 4 HD questa sera alle 21:25

Ip Man, o Yip Man a seconda della grafia che preferite, fu un artista marziale cinese vissuto tra il 1893 e il 1972 che divenne famoso come grande maestro del Wing Chun, una semi-misteriosa arte marziale cinese inventata nel XVIII secolo, che viene tramandata per via orale dal maestro allo studente e che divenne particolarmente famosa negli anni Sessanta perché la praticava Bruce Lee, che l’aveva imparata proprio da Ip Man. Ip Man, senza grafie alternative, è invece un film dell’attore e regista di Hong Kong Wilson Yip, che racconta, ma soprattutto romanza e coreografa, la vita del gran maestro Ip Man, sullo sfondo della seconda guerra sino-giapponese che vide l’invasione della Cina da parte dell’esercito, be’, giapponese. In quanto a ricostruzione storica è un’opera, diciamo così, un po’ carente, che trasforma Ip Man in una figura quasi mitologica e lo trasforma nel riluttante eroe di un conflitto che vede da una parte l’invasore assetato di sangue e dall’altra il già vessatissimo popolo cinese; in quanto film di arti marziali, invece, è una delle cose più belle che potrete vedere in vita vostra, tra quelle uscite negli ultimi vent’anni e non solo.

La prima volta che il nome di Ip Man ha fatto il salto dalla storia al cinema è nel 1976: il film è (scusateci se usiamo il terrificante titolo italiano) Bruce Lee Supercampione, un quasi-biopic uscito tre anni dopo la morte dell’attore, nel quale Ip Chun, il figlio di Ip Man, compare per una particina nel ruolo del padre. Questo fatto che Bruce Lee avesse studiato con un gran maestro di un’arte marziale molto spettacolare e avvolta da un alone di mistero colpì molto l’intero comparto produttivo cinese: Ip Man diventò una figura ricorrente, prima in una serie di film che raccontavano in un modo o nell’altro la vita del suo allievo più famoso (tra cui anche l’americano Dragon – La storia di Bruce Lee di Rob Cohen), poi in opere dedicate a lui e alla sua storia.

Donni

Ip Man è la prima di queste, una lunga lista che comprende non solo i tre sequel del film di Yip ma anche un altro paio di film, una serie TV e, naturalmente, The Grandmaster di Wong Kar-wai, che nel 2013 arrivò a tanto così dall’entrare nella cinquina dei candidati all’Oscar per miglior film straniero. Wilson Yip, però, può vantarsi di essere stato il primo, e di avere in qualche modo lanciato una moda. Può anche vantarsi di avere scelto un cast e una squadra perfette per il film, per aver azzeccato il protagonista con una precisione chirurgica (questa è una foto del vero Ip Man, ora confrontatelo con Donnie Yen), per aver affidato le coreografie dei combattimenti a un’autorità mondiale come Sammo Hung... insomma, Wilson Yip può vantarsi di avere fatto il biopic perfetto su Ip Man.

A dirla tutta, definire Ip Man un biopic è estremamente generoso: è il genere di operazione che se venisse fatta per un qualche occidentale famoso verrebbe accolta con insulti e sberleffi, perché racconta pochissime cose che sono successe veramente e preferisce costruire una parabola fatta di simboli e allusioni al centro della quale si trova la figura semi-divina di Ip Man. Che vive con la sua famiglia a Foshan, nello Guandong, una città che negli anni Trenta del secolo scorso era famosa per le arti marziali: ospitava una grande quantità di scuole dedite a ogni tipo di disciplina, ed era il punto di riferimento dell’intera regione per chi voleva imparare a menare le mani, sì, ma con stile. Ip Man è il migliore in città, ma è talmente umile e modesto che non vuole avere allievi: chiede solo di essere lasciato in pace a godersi la vita con la moglie Cheung Wing-sing.

Il cattivo di Ip Man

Ma siccome la Cina viene da anni di guerra civile e si prepara anche a venire invasa dal Giappone, ovviamente la vita del gran maestro non è tranquilla quanto lui vorrebbe: cacciato dalla sua magione dall’esercito invasore, è costretto a trasferirsi in uno squallido appartamentino e a lavorare in una miniera di carbone. Tornerà in azione quando i soldati giapponesi, aiutati da una serie di criminali locali vendutisi al nemico, cominciano a tormentare la città, e a obbligare gli artisti marziali locali a combattere in cambio di un sacco di riso per campare; tornerà, e prenderà tutti a calci e pugni.

Ovviamente la realtà è più complessa di così, e la storia di Ip Man non è la vera storia di Ip Man, piuttosto una favola che parla della crudeltà dell’invasione giapponese e della resilienza del popolo cinese, sfiancato dalla guerra civile e vessato dal nemico. È un film di propaganda, anche vagamente revisionista o quantomeno semplicistico e un po’ tagliato con l’accetta; ma vi sfidiamo a lamentarvene dopo che l’avrete visto, perché è chiaro fin da subito che Ip Man non ha alcuna ambizione storiografica, ed è interessato soprattutto a celebrare la bellezza del Wing Chun. Non è un caso che per il ruolo del gran maestro Yip abbia voluto Donnie Yen, che era nel 2008 (ed è anche adesso, nonostante vada per i sessanta) probabilmente il miglior artista marziale in circolazione – talmente bravo che a un certo punto se ne sono accorti persino a Hollywood, come dimostrano Rogue One e xXx – Il ritorno di Xander Cage. Mettetelo di fianco a uno dei migliori coreografi di Hong Kong come Sammo Hung, che esordì al cinema a fianco di Bruce Lee in I 3 dell’Operazione Drago e che è responsabile di buona parte del successo di Jackie Chan, e capirete che lo scopo di Wilson Yip era prima di tutto quello di mettere in scena sequenze del genere:

Serve aggiungere altro? Crediamo di no, che questi tre minuti valgano più di mille trailer, recensioni e approfondimenti: se avete cominciato a saltare sulla sedia correte a recuperare Ip Man, altrimenti girate alla larga.

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