Interstellar: la lettera d’amore di Christopher Nolan all’umanità
Interstellar è il film più ottimista di Christopher Nolan e più passano gli anni più quello che dice colma le necessità del presente
Interstellar mi ha conquistato lentamente. La prima volta mi si presentò come un film ambizioso e gelido, con un cuore debole sommerso da un intreccio troppo complicato, appesantito da concetti di fisica teorica che avrebbero richiesto un piccolo manuale da leggere prima della proiezione. Nolan un autore che voleva dimostrare di aver fatto i compiti anche a costo di alienarsi lo spettatore. E poi quel finale, così paradossale e inguaribilmente ottimista, era incapace di chiudere questo esercizio di stile poco graffiante.
Pace fatta, Interstellar si trasformò in qualcosa di diverso. Divenne una colonna sonora da ascoltare quando occorre pensare, qualche clip da vedere e rivedere su YouTube (QUESTA) e un opera importante per interpretare il pensiero del suo autore. Così, frammentato, privato del suo scopo, tagliato nelle sue parti riprodotte in ordine casuale ad una ad una, Interstellar era diventato persino semplice.
Un’odissea nel tempo
L’apocalisse arriva con calma. Non ci si sente morire, ma ci si guarda intorno e non si vede la vita. Come non sentirsi partecipi di quell’umanità inconsapevole, colpita da una piaga che la costringe a dividersi tra ingegneri e agricoltori (la matematica e l’umanesimo)?
“Troveremo una soluzione, l’abbiamo sempre fatto” è la reazione di Cooper alla notizia che persino il mais, ultimo alimento resistente, presto sparirà. Cercare una soluzione è l’errore di chi è spinto dall’incrollabile fede che la terra sia nostra, ribatte il professor Brand.
Per un attimo anche la scienza entra nel paradosso della fede. Deve fidarsi di un fantasma, affidarsi a un’intuizione. Così Cooper parte come un Ulisse alla ricerca di una nuova Itaca. Tutto il resto, per capire Interstellar, è superfluo.
Nolan riprende l’ultima speranza dell’umanità senza clamore, con calma e attesa. Perché i suoi personaggi sono intrappolati nel silenzio di uno spazio che consuma il tempo e in un film che questo tempo lo rende eterno catturandolo 24 istanti al secondo nella pellicola. Il viaggio più solitario della storia umana tiene per mano l’Odissea nello spazio di Kubrick, ovviamente. È una necessità di linguaggio: non si può riprendere il naufragare nella gravità senza avere negli occhi uno dei maggiori capolavori della storia del cinema.
Eppure Interstellar è profondamente distante da questo modello, se non addirittura opposto. Entrambi sono moniti inseriti dentro a lettere d’amore all’umanità. Sono storie epiche che si basano sugli errori, sulla fallibilità delle persone e delle macchine, sull’intuizione che non arriva e che costringe ad abbandonarsi all’ignoto. Solo che Nolan toglie ogni agente esterno. Nessun deus ex machina, nessun monolite, piuttosto è il protagonista che salva se stesso, l’umanità che si viene in soccorso. Un’ingenuità quasi insopportabile se non fosse che, ad un certo punto, anche nella realtà dovremo trovare un modo per uscire dalla spirale autodistruttiva.
Un film sui paradossi
Meglio evitare di ridurre Interstellar a un film solamente ecologista, anche se è uno dei più grandi esempi di cinema che parla di cambiamento climatico. È un film sui paradossi. Il primo è l’essere abitanti attaccatissimi ad una terra inabitabile. C’è poi un padre assente, lontano anni luce, eppure più vicino di quanto non fosse quando era fisicamente presente, ma con la testa altrove. C’è paradosso di vedere una figlia morire di vecchiaia prima del genitore. Soprattutto quello di permettere alla specie di andare avanti grazie a delle possibilità tecnologiche e fisiche create nel futuro e donate alla gente del presente da chi è stato salvato. Salva il tuo salvatore.
Cose che, senza una spiegazione convincente, farebbero crollare un film. Nolan la trova nell’amore, come un legame costruito per orientarsi nel tempo. Sarebbe inaccettabile per un film di stampo pessimista. È coerente invece con questo film che cerca di spiegare tutto ma che si accontenta alla fine di indicare quello che non sa rendere formula matematica. È servito Denis Villeneuve con il suo Arrival e la sua capacità di dare una forma visiva all’amore per farmi comprendere il senso di chiusura del cerchio che voleva dare Christopher Nolan.
Dove inizia Interstellar?
Nolan si è avvalso della consulenza del fisico teorico Kip Thorne per rendere plausibile la sua avventura. Il fatto che quando è arrivata la prima foto di un buco nero supermassiccio in molti abbiano pensato a Gargantua fa desistere anche chi ritiene che la tendenza ad avvicinarsi al realismo scientifico non sia necessario per raccontare una buona storia.
Siamo fatti per esplorare. Non basta sopravvivere, o tenere accesa la torcia per la generazione futura. Lo dice Cooper nel 2014. Negli anni reali che seguirono quello di agire adesso, senza aspettare, è diventato il più grande tema politico. In Interstellar non è ammesso credere all’allunaggio, perché sognare di andare via impedisce di occuparsi al cento per cento del qui e ora. Oggi la corsa verso spazio ha ripreso vigore. Non sta a noi discutere i metodi e gli scopi che ha assunto. Ma è un altro segno di come ci stiamo avvicinando sempre di più alla visione di un film ogni giorno sempre più semplice, ogni giorno sempre più significativo.
È possibile accettare quindi un lieto fine così smaccato? Il salto di fede e il paradosso in un film scientifico? Probabilmente no, non c’è ragione per pensarlo. Eppure è bello che in un momento ben preciso nel tempo un regista abbia pensato che un uomo come Cooper, una presenza fuori dallo spazio e dal tempo, potesse diventare il salvatore di mondi. Il suo viaggio parte nel 2067, ma oggi abbiamo capito che la sua origine è nel 1945. C’è un ponte di Einstein-Rosen cinematografico che lo lega ad un altro uomo. In lui Nolan ha smesso di riporre ottimismo. Opposto a Cooper, eppure così uguale, è colui che si riteneva il distruttore di mondi. Oppenheimer. L’ultima visione, per amare ancora di più Interstellar.
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