Interceptor, il primo, profetico capolavoro di George Miller
Interceptor, primo capitolo della saga di Mad Max, parlava del nostro futuro già quarant’anni fa, e ci metteva in guardia contro la nostra dipendenza dal petrolio
La storia della saga di Mad Max è curiosa, e ricorda molto da vicino un altro franchise che ha seguito lo stesso percorso – quello di Rambo. Pensateci: che cosa vi viene subito in mente se pensate a Mad Max? Macchine che saltano per aria, gente vestita in modi bizzarri, e soprattutto un futuro post-apocalittico nel quale l’esplosione di una o più bombe atomiche ha cambiato per sempre il volto del pianeta e dei suoi abitanti. E che cosa vi viene in mente se pensate a Rambo? Un tizio con la bandana rossa che vaga per il mondo in cerca di zone di guerra dove compiere una strage in nome della giustizia, della vendetta o degli Stati Uniti d’America. E come John Rambo non indosserà quell’indumento cremisi, né si trasformerà in un supersoldato, prima del secondo capitolo, così “Mad” Max Rockatansky nasce in un mondo pre-atomica e pre-mutazioni, e comincia ad assomigliare al personaggio che avete in mente solo dal secondo capitolo. Eppure, diversamente da quello che succede con Rambo che diede una sterzata netta al tono tra un film e l’altro, riguardare il primo episodio datato 1979, Interceptor, è come vedere le prove generali di quello che sarebbe venuto dopo.
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(prima di spiegarvela segnaliamo che il riferimento principale per il pezzo è questo saggio di James Douglas della RMIT di Melbourne datato 2019, intitolato The Kennedy Miller Method e dedicato alla casa di produzione fondata da George Miller e dall’amico Byron Kennedy)
Questa era l’idea dietro Interceptor, che, sempre secondo George Miller, sarebbe dovuto essere “un film muto con il sonoro”: pochi dialoghi asciutti ed essenziali, e tante, tantissime immagini in ultra-movimento; “puro cinema” secondo Miller, un film facile da scrivere e difficile da girare. Almeno sulla prima parte Miller si sbagliava, tanto è vero che lo script di Interceptor non è firmato solo da lui e Kennedy, ma anche da James McCausland – e qui torniamo a Quarto potere. Miller racconta che al tempo né lui né Kennedy avevano idea di come si scrivesse un film, e dunque si misero a leggere tutto il possibile sull’argomento; una delle letture decisive fu quella del saggio Raising Kane di Pauline Kael, che racconta la storia del making of del film di Orson Welles. Tra la valanga di informazioni contenute nel pezzo ce n’è una che ha a che fare con Herman Mankiewicz, il Mank del film di Fincher, il quale arrivò a Hollywood da giornalista newyorkese, e la prima cosa che fece fu chiamare il collega e amico Ben Hecht dicendogli, in pratica, “guarda che qui c’è bisogno di noi e possiamo fare un sacco di soldi”.
“Mank” fu il capostipite di una generazione di giornalisti che cambiarono costa e mestiere e portarono il loro stile secco, cronachistico e bruscamente ironico in un mondo che al tempo annegava nei formalismi e nella buona educazione. Questo concetto colpì George Miller al punto da convincerlo che per scrivere un buon film servisse un giornalista: McCausland, appunto, che non aveva alcuna educazione formale da screenwriter ma che usò il suo fiuto giornalistico per inventarsi una storia ambientata in un’Australia non solo futura ma futuribile. “Nel 1973, i Paesi arabi produttori di petrolio shockarono il mondo chiudendo i rubinetti dei loro pozzi” scriveva nel 2006 McCausland ricordando le origini della sua sceneggiatura. “Ed era chiaro che gli australiani avrebbero tentato qualsiasi cosa pur di assicurarsi di poter continuare a guidare”.
Tutto questo si riflette nel prodotto finale, che racconta di una società a un passo dal collasso (per motivi non meglio specificati) e che ha quindi trasformato i veicoli a motore non solo in strumenti di libertà e autoaffermazione, ma in vere e proprie divinità pagane. Il culto dell’automobile (o della moto, o del camion) è uno degli elementi di continuità più forti tra Interceptor e Mad Max 2, come lo è l’amore per le lamiere contorte, gli stunt folli e il deserto. E come lo è il linguaggio: oggi se pensiamo a Mad Max ci vengono in mente le parole “ammira” e “Valhalla”, ma già nel 1979 gli assurdi piloti della gang di Toecutter si esprimevano in modo molto simile; guardate per esempio il monologo di Nightrider, che si definisce “la potente mano della vendetta, mandata sulla terra per colpire chi non è degno” e dichiara che sta “creando una strada di gomma, diretta verso la libertà”.
E ovviamente c’è l’elemento di continuità più forte, interrotta solo con l’ultimo capitolo del franchise: Mel Gibson. George Miller non lo voleva, o meglio, aveva deciso all’inizio di puntare su un attore americano, un nome di richiamo che potesse trascinare il film anche all’estero; ci rinunciò quando si rese conto che la presenza di una star straniera avrebbe succhiato gran parte del limitato budget di circa 400.000$, e scelse invece di pescare tra i talenti locali. Tra i quali spiccava appunto quello dell’allora giovanissimo Gibson, nato in America ma di origini australiane, che convinse Miller e Kennedy nel modo più classico e old school possibile: con un provino di quelli che lasciano il segno. La scelta si rivelò vincente sia la produzione, che aveva trovato il volto perfetto non solo per questa sorta di prequel pre-bomba ma anche per i successivi capitoli, sia per Gibson, al secondo ruolo da protagonista un anno dopo aver recitato nello sconosciutissimo Summer City – Un’estate di fuoco, e che grazie ai Mad Max – soprattutto il terzo – prese la rincorsa che lo portò fino alle stelle (dalle quali poi sarebbe caduto rovinosamente all’inizio degli anni Duemila, salvo rifarsi un nome e una reputazione negli ultimi anni).
Interceptor fu, a fronte di un budget ridicolo e non solo per gli standard odierni, un successo clamoroso: solo in Australia superò i 5 milioni di dollari, e nel mondo sfondò la soglia dei 100 – per anni è stato nel Guinness dei primati come film con il miglior rapporto tra budget e incassi della storia del cinema. La gente di tutto il mondo vide, in questa avventura folle e sgangherata, qualcosa di profetico, e che acquista ancora più valore oggi, a più di quarant’anni di distanza: come ricorda McCausland nel pezzo linkato prima, che è datato 2006, “un rapporto dello US Department of Energy ha spiegato che il mondo non ha mai affrontato un problema del genere [quello del consumo di risorse e dei cambiamenti climatici che ne derivano]. Se non prendiamo contromisure immediate, con almeno dieci anni d’anticipo sul punto di non ritorno, il problema non sarà più temporaneo ma endemico. Le precedenti transizioni energetiche sono state graduali, l’abbandono dei combustibili fossili dovrà essere una rivoluzione”. Se solo avessimo ascoltato.