Inside Man è Spike Lee che si diverte (e gli viene benissimo)

Inside Man è quello che succede quando Spike Lee gioca con il pop-corn e mette in scena uno degli heist movie migliori di sempre

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Nel corso della sua lunga e prolifica carriera, Spike Lee ha fatto tante cose, e una di queste è divertirsi. Di solito però è una questione di tono, non di temi: quelli sono sempre stati molto seri, anche quando il regista di Atlanta li ha declinati con (relativa) leggerezza. In questo senso, Inside Man potrebbe essere un unicum nella sua filmografia: un’opera divertente e tutto sommato superficiale, che prende un modello classico (lo heist movie) e lo cesella pazientemente avvicinandolo alla perfezione, e che non parla – se non tangenzialmente – di ciò di cui solito Spike Lee ama parlare, ma si limita a catturarti con la prima inquadratura e portarti in un viaggio allucinante nei meandri del piano per la rapina perfetta e della sua esecuzione. È cinema pop-corn all’ennesima potenza, concepito ed eseguito da una serie di persone in stato di grazia.

Cominciamo dalla sceneggiatura: nel 2006 Russell Gewirtz era chiaramente in stato di grazia, una condizione che non è più riuscito a ripetere nella sua scarna carriera. Inside Man è un manuale di come incastrare tre o quattro storyline diverse che ruotano attorno a una banca sotto assedio, e di come e quando distribuire al pubblico gli indizi necessari a fare ipotesi ma non sufficienti ad avere risposte – il quadro definitivo di quanto successo nella banca arriva solo sul finale, e forse neanche allora, ma non c’è mai un momento nelle oltre due ore di film nel quale ci si senta persi o disorientati. Inside Man ha chiarissimo in testa il proprio piano d’attacco e lo esegue senza mai esitare o perdere un colpo.

E di fronte a una tale ricchezza di materiale, Spike Lee dimostra di saper maneggiare alla perfezione una materia come quella dell’heist movie nella quale non si era mai cimentato prima, ma che ha parecchi precedenti illustri nella storia del cinema ai quali guardare. È tutto da manuale, fin dal setup. La banda di rapinatori è guidata da un carismatico monologhista con la faccia di Clive Owen in quella che potrebbe essere la prestazione migliore della sua carriera (sicuramente una delle). Il suo Dalton Russell è un uomo con una missione e con la ferma intenzione di non farci sapere quale sia questa missione fino a che non arriva il momento giusto. Il lato “ladri” di questo grande gioco di guardie e ladri è affidato a lui, ai suoi silenzi e alle sue misurate rivelazioni; e in questo modo Inside Man riesce a creare un meraviglioso equilibrio per cui la curiosità di scoprire non viene mai soffocata dalla frustrazione di non sapere. Non ci mancano mai davvero dei pezzi, se non quelli che è necessario tenerci nascosti per poterceli poi rivelare con un colpo di teatro.

L’altro lato dell’equazione è un altrettanto gigantesco Denzel Washington in uno di quei ruoli che sembrano scritti per lui (in realtà, curiosamente, Lee gli aveva proposto anche il ruolo andato poi a Clive Owen). Keith Frazier è un detective competente ma sbruffone, il classico che avrebbe potuto avere una carriera migliore se solo sapesse quando stare zitto. È lui il nostro secondo punto di vista, quello che racconta come le forze dell’ordine reagiscono alla rapina e alla presa degli ostaggi, e pieno stile Spike Lee è in clamoroso contrasto con Russell. Dove quest’ultimo è il villain perfetto e in un certo senso senza macchia, Frazier è una figura tanto tridimensionale quanto equivoca, che approccia il suo lavoro con un atteggiamento che sta sempre sul confine tra il sacro zelo e l’abuso di potere (quest’ultimo emerge in particolar modo negli efficacissimi inserti finto-documentaristici con le interviste agli ostaggi post-liberazione). Non è corrotto, ma non è neanche immacolato. È con ogni probabilità il genere di persona che se non fosse finita a fare il poliziotto sarebbe finita dall’altra parte della barricata, e questo lo aiuta anche nel suo mestiere; almeno fino a che Russell non lo inquadra e decide quindi di cambiare il suo approccio, modificando in corsa il suo piano pur mantenendolo sempre sui binari della perfezione.

Ridurre Inside Man a uno scontro di cervelli, a uno yin vs. yang tra Clive Owen e Denzel Washington, è però riduttivo. In primo luogo perché ci sono altre parti in causa, a partire dal proprietario della banca (Christopher Plummer che fa Christopher Plummer) che potrebbe nascondere oscuri segreti nella sua cassetta di sicurezza, passando per la ricca fauna newyorkese che ruota attorno alla scena del crimine (tra cui si segnala un Willem Dafoe un po’ in minore rispetto ai compagni di set), per finire con Chiwetel Eijofor (il partner di Washington) e soprattutto Jodie Foster. Quest’ultima è forse il personaggio più moralmente ambiguo e discutibile dell’intero film, una sorta di Clarice del Silenzio degli innocenti che ha deciso di mettersi in proprio e diventare una figura indefinibile ma efficace, il genere di persona che i ricchi e potenti chiamano quando c’è da risolvere con discrezione una questione delicata.

Il risultato è che lo scontro tra cervelli tra Russell e Frazier è inserito in un ecosistema più ampio e sempre in movimento, che trasforma Inside Man in un film corale, un meccanismo a orologeria nel quale ogni dialogo, ogni stacco, ogni movimento di macchina è studiato e soppesato fin nel minimo dettaglio. È un film formalmente impressionante, senza tempi morti, senza scene troppo lunghe o troppo corte, quasi algoritmico se non avesse anche un cuore e un evidente tocco autoriale, che traspare dai momenti più improbabili – vedasi per esempio la citazione/critica di/su GTA, che a onor del vero è l’unico momento in cui Inside Man vacilla sotto i colpi di un “OK, boomer” collettivo.

Inside Man non era probabilmente il film che ci si aspettava da Spike Lee nel 2006, quattro anni dopo La venticinquesima ora e pure (con il senno di poi) solo due anni prima di Miracolo a Sant’Anna. Ancora oggi spicca nella sua filmografia come una gloriosa eccezione, un film nel quale Spike Lee decide per una volta di arrendersi al cinema di genere, alle sue regole, alla voglia di raccontare una storia solo perché è divertente e intricata e non perché dica necessariamente qualcosa di importante. Molto spesso quando un Autore cede alle tentazioni commerciali il risultato è un disastro. Inside Man, al contrario, è un trionfo.

Il film è disponibile da qualche giorno su prime Video.

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