Innovazione vs tradizione: la bugia dell'alternativa
Una riflessione sulla dicotomia tra innovazione e tradizione che si ripropone ad ogni nuovo capitolo di una serie
Che il “pubblico” e il “mercato” non siano entità singole e monotematiche dovrebbe essere una verità a disposizione di chiunque giri, anche solo distrattamente, tra gruppi, pagine e realtà social e fisiche: sulla singola scelta di un'azienda o di un autore ci sono mille diverse interpretazioni e volontà, da quelle più superficiali, fino a quelle più tecniche e profonde. Innanzitutto, dunque, non dobbiamo chiederci “cosa vuole il pubblico da quest'opera?”, ma “a quale pubblico vuole rivolgersi questo prodotto”, e se intende spezzare i suoi legami con il passato (innovazione) o rinsaldarli (tradizione). È dunque in primis la scelta economica che spesso stimola un approccio tradizionale o innovativo, e non una non meglio precisata “artisticità” di questo o quello studio.
In funzione degli elementi già citati, emerge con chiarezza come la scelta di innovare o rimanere fedeli a un certo brand non sia di certo legata al potenziale espressivo di un'opera, ma a urgenze e necessità commerciali. Per amor di dibattito, diciamo invece che ogni studio o artista innovi quando ha uno spirito creativo coraggioso, e rimanga invece nel solco della tradizione quando ha esaurito il suo estro. Se così fosse, dovremmo trovare ogni elemento che trasforma la tradizione in innovazione, e capire quando la seconda trasforma la prima e viceversa. Un nuovo modo di gestire un sistema di combattimento, ad esempio, smette di essere innovativo e originale al primo o al terzo utilizzo? Reinterpretarlo in un altro brand è originalità o misera copia? Ben prima di avere la possibilità di cogliere il valore dell'opera nel suo complesso, stabiliamo se sia frutto complessivo di scelte basate su opzioni politiche o commerciali, senza dare il tempo al messaggio di emergere dall'intero scambio comunicativo tra mittente e destinatario.
I modi fluidi in cui riusciamo a descrivere qualcosa che non ci piace come “già visto”, e al contempo difendere il nostro brand preferito come “coraggiosamente tradizionale” dovrebbe suggerirci che, in realtà, il punto rilevante dell'analisi critica non sia la presenza dell'elemento innovativo o tradizionale, ma il modo in cui queste caratteristiche vengono usate per trasmettere e diffondere il messaggio. Se però l'interesse nel significato e nel messaggio muore, l'opera diventa prodotto e, proprio come al mercato, è legittimo che venga valutata la sua qualità prima dell'acquisto, e che almeno si senta il bisogno di una qualche garanzia. L'abitudine di giudicare i prodotti “dalla copertina”, a dispetto del famoso detto, emerge proprio da un approccio culturale, come descritto prima, basato sul consumo dell'opera, non sull'interagire con essa per coglierne il messaggio. In tal senso, la recente classificazione di molte produzioni videoludiche come di “giochi-servizio” esemplifica in modo egregio lo spostamento del centro d'interesse collettivo dal “messaggio/significato” verso un binomio di “offerta/convenienza”, in cui gli elementi più rilevanti dell'opera sono la sua durata, il suo potenziale e costante riutilizzo e la garanzia della sua affidabilità nel tempo: più un elettrodomestico che un'opera interattiva. Ed è dunque scontato che, in una prospettiva tecnologica e non umanistico-letteraria, l'elemento rilevante sia l'innovazione tecnica e pratica che il nuovo prodotto offre, e non i motivi per cui l'autore o lo studio ha utilizzato tali innovazioni (o tradizioni). Dobbiamo dunque sperare in una riscrittura dei concetti di innovazione e tradizione, sperando che in futuro possano essere solo categorie funzionali a spiegarci le idee delle menti dietro il nostro amato intrattenimento.