Indiana Jones e il quadrante del destino è un film tristissimo

Tra le molte emozioni che vorrebbe far provare Indiana Jones e il quadrante del destino ce n'è una non prevista: la tristezza

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Spoiler Alert

Tutto avrei pensato di provare guardando Indiana Jones e il quadrante del destino tranne la tristezza. È stata invece l’emozione che ha accumunato sia le sequenze più riuscite che quelle completamente sbagliate. Potevo aspettarmelo però. “È l’economia della nostalgia, bellezza”. 

Il concetto è semplice: si prende un personaggio molto amato e lo si riporta in scena ignorando che gli anni nelle giunture siano troppi per permettere ancora avventure. Si scrivono dialoghi per scherzare proprio su questo tema. Fatta la strizzata d’occhio si può tornare indietro nel tempo, ringiovanire i personaggi, cercare di ricreare quella magia che ha reso la saga un punto fondamentale della cultura popolare. Fare un bis inatteso, dare ancora vita a un personaggio che si temeva di avere abbandonato. Allora perché il risultato finale del Quadrante del destino è così scialbo che non fa venire voglia nemmeno di arrabbiarsi, come accaduto invece con Il regno del teschio di cristallo?

La malinconia di assistere alla fine di un’epoca

Altro che omaggio al mito del passato, Indiana Jones e il quadrante del destino ha l’aspetto gioioso di un funerale che non sa di esserlo. Cerca a forza di mantenere in vita un franchise ma, così facendo, ne dichiara la sua dipartita. Questo non vuol dire che non vedremo mai più un Indiana Jones bello, il cinema riserva sempre molte sorprese, ma sarà diverso. Quel profumo riconoscibile delle 3 avventure dell’archeologo che hanno guidato gli anni ’80 è ormai disperso nell’aria e irreplicabile. Il passato è passato e non ritornerà. Non come prima, non con la stessa intensità. Ci si chiede di accettarlo alla fine di questo quinto capitolo.

Il film parla proprio di questo con la sua scelta più controversa - il viaggio nel tempo - che è alla stregua di un messaggio di aiuto inviato da James Mangold e sceneggiatori. Tolta la bizzarria di quel momento e la realizzazione povera di inventiva, quello che dice Indiana Jones è di un’importanza pazzesca per quello che è il modo in cui intendiamo il personaggio. Il dialogo è da leggersi totalmente fuori dal contesto della storia. Parliamo di creativi, di IP, e di uno studio che ha bisogno di non lasciar appassire il franchise.

Con questo in mente, Indiana Jones ammette ad Helena di non appartenere più al suo presente (narrativo). Può esistere solo nel passato remoto della battaglia di Siracusa e nelle meraviglie dell’antichità. Non può tornare nel 1969. In altre parole: Indiana Jones, questo Indiana Jones, non può vivere al di fuori degli anni ’80 che l’hanno reso grande. Nel cinema di oggi quell'epoca è spesso citata, ma quello spirito è lontano e isolato nel tempo.

Disney, o meglio Helena, gli assesta un pugno e lo riporta nel presente. Non si sa mai. Cosa si è messo in testa questa proprietà intellettuale? Cosa sta delirando? Vuole vivere nella gloria dei ricordi e riposare guardando ciò che è già stato? Questa libertà non è concessa a chi ha ancora un valore affettivo forte sul pubblico. Per lo meno fino a che questo credito non sarà esaurito. Ecco la tristezza. Per liberare l’Indiana Jones del passato, bisogna lasciare andare quello del presente. 

Una saga che ha bisogno di suo papà

La seconda cosa che ha cercato di fare Indiana Jones e il quadrante del destino è stata lasciare le mani di Steven Spielberg e camminare da solo. Per farlo è stato chiamato James Mangold la cui passione per il materiale è indiscutibile. Sei anni dopo il successo di Logan - The Wolverine, eccolo ancora impegnato a raccontare il tramonto degli eroi. Impossibile scrollarsi di torno l’idea che sia stato scelto proprio per come aveva accompagnato alla porta l’anziano Hugh Jackman. Per inciso, Logan fu un successo e un gran commiato, ma dicevamo che la pensione dei personaggi è sempre revocabile così eccoci pronti a rivederlo in Deadpool 3. “È l’economia della nostalgia, bellezza”. 

L'idea di Indiana Jones capitolo cinque: replicare il commiato e dare nuova linfa al genere dell’avventura. Due missioni fallite proprio a causa di quella nostalgia sempre ricercata in ogni singolo momento che ha costretto l’intero impianto del film a una sudditanza impressionante verso il passato. Invece che camminare da solo ha ripreso le mani dei capolavori di Spielberg e ha costruito su quelli i suoi momenti migliori. Il finale stringe il cuore, le gag e le situazioni replicate strappano un sorriso. Dopo averle riconosciute non la sentite arrivare quell’aura di decadenza? Come un’imitazione ben confezionata, ma mai originale. Uno zombie che imita la vita tramite la memoria muscolare.

Colpe oggettive

Anche con l’idea sbagliata, anche costretti dall'alto a realizzare questo film, le cose si potevano fare meglio. Strabiliante il ringiovanimento digitale, ma comunque visibile a tal punto da far perdere l’immedesimazione. I nuovi personaggi non mordono. Phoebe Waller-Bridge non trova quasi mai il giusto accento al suo umorismo. Appare spaesata in una storia che dovrebbe essere anche sua, ma non lo è mai.

Jürgen Voller viene scaraventato giù da un treno in corsa prendendo un palo in faccia ad altissima velocità. Sopravvive, e va bene così, può succedere nei "cartoni animati in live action". Il suo corpo, il modo di ragionare, la sua cattiveria sono tutte sbagliate perché non riportano (se non in minima parte) i segni di quello che gli è accaduto. Ogni spiegazione sul suo conto non è convincente, le sue motivazioni sono risibili e illogiche. Il nazista scontento vuole eliminare Hitler prima della sconfitta e provare a fare di meglio con una nuova leadership? Ancora una volta l’ossessione del film rispetto a se stesso: persino i cattivi fanno fatica a trovare una successione!

La grande capacità dei primi tre Indiana Jones di rendere anche gli elementi fantastici in qualche modo probabili, o comunque coerenti, viene qui quasi totalmente a mancare. Spielberg teneva tutto un punto sotto la soglia della perdita dell’immedesimazione. Mangold vuole fare lo stesso e invece è sempre leggermente sopra. Non crediamo nella storia e quindi non crediamo che possa accadere qualcosa ai personaggi, manca quasi sempre la capacità di raccontare questi avvenimenti come importanti per dei nomi e dei volti che dovrebbero avere già risolto molte cose della loro esistenza. Si forzano traumi nel loro passato, si infilano problemi e spinte all’azione in maniera forzata solo perché la nostalgia chiama, il passato ritorna e pretende di venir chiamato presente. 

Che tristezza questo Indiana Jones e il quadrante del destino dove il lieto fine non esiste mai veramente perché, fino a che ce ne sarà bisogno, gli anziani non potranno riposare né vivere felici. Ci sarà sempre un problema che ritorna, un segreto da affrontare. Vale per Indiana. Vale per i franchise che ormai hanno dato tutto, ma in cui il botteghino continua ancora a sperare (spesso invano). La pensione non è un diritto nell’economia della nostalgia.

Indiana Jones e il quadrante del destino è disponibile su Disney+

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