Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta ci ha insegnato l’importanza della sconfitta quarant'anni fa
Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta è un film perfetto, con un finale ancora più perfetto perché inaspettato (o forse no)
Quanti eroi cinematografici hanno cominciato la loro carriera sul grande schermo con una sonora sconfitta? Non è mai una buona idea presentare un nuovo personaggio con un fallimento: bisogna convincere il pubblico che vale la pena investire su questo volto mai visto prima, che è una persona di cui fidarsi, non da prendere in giro per la sua incapacità. Quarant’anni fa, un eroe nuovo di zecca, che si chiamava Indiana Jones, nato dalla fantasia di George Lucas con il contributo di Steven Spielberg e Lawrence Kasdan, fece il suo debutto nelle sale cinematografiche americane, e lo fece nel modo più inaspettato: subendo una sonora e umiliante sconfitta.
LEGGI: Indiana Jones 5: ecco le prime foto dal set, si gira un flashback con un giovane Harrison Ford
Ed è proprio la completa gratuità, a livello narrativo, della scena a renderla così potente: è uno showcase sia di quello che il personaggio è in grado di fare (è pieno di risorse, furbo, capace di improvvisare, con scarso riguardo per l’incolumità personale…), sia del tipo di situazioni nelle quali si ritrova di frequente (tombe, sotterranei, trappole, favolosi tesori archeologici), ed è anche una dichiarazione d’intenti che proclama a gran voce che Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta sarà anche un grande giro di giostra, un movimento costante da una scena madre all’altra, un film che non sta mai fermo e che non torna mai due volte nello stesso posto. Soprattutto, come accennavamo sopra, è una scena alla fine della quale Indiana Jones perde, e il suo rivale vince.
E infatti il resto del film è una sequenza di fallimenti più o meno grandi, punteggiati qui e là di qualche temporanea vittoria. Sono più le situazioni nelle quali Indiana Jones deve salvarsi la vita uscendo da una situazione apparentemente impossibile che quelle dove festeggia per essere arrivato prima del villain, e il suo essere così pronto ad accettare la sconfitta è perfettamente dimostrato dalla scena in cui, invece di liberare Marion, la lascia in mano ai nazisti in attesa di pensare a una soluzione migliore.
C’è un motivo ben preciso per cui l’archeologo più famoso del mondo continua a venire surclassato dal suo attuale rivale (quello di I predatori dell'arca perduta è il miglior villain mai visto in un Indiana Jones, il Moriarty dello Sherlock Holmes di Harrison Ford). E non è la disparità di mezzi, nonostante anche questo sia un fattore: Belloq è sponsorizzato dal Fuhrer in persona e ha un pezzo di esercito nazista ai suoi comandi, mentre Indiana Jones lavora per conto del governo americano che gli ha staccato un assegno da qualche migliaio di dollari e gli ha augurato buona fortuna. No, il motivo è un altro, ed è proprio Belloq a spiegarlo: stiamo parlando della scena nella quale l’archeologo francese interpretato da Paul Freeman spiega a Harrison Ford che loro due non sono poi così diversi, che vogliono le stesse cose e che basterebbe una piccola spintarella per portare Indiana Jones a quello che non fatichiamo a definire “il lato oscuro dell’archeologia” (quella spintarella che poi riceveranno due dei principali eredi di Indiana Jones nel mondo dei videogiochi, Lara Croft e soprattutto Nathan Drake).
Indiana Jones fa quello che fa per la storia, per la cultura, ma anche, forse soprattutto, per la gloria personale. Non è un caso se il film è stato negli anni tacciato (tra le altre cose) di avere un forte sottotesto colonialista: Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta è la storia di due tizi occidentali che si sfidano in una caccia al tesoro che ha come obiettivo un oggetto considerato sacro dalle popolazioni locali, e poco più che un veicolo di gloria dai due archeologi bianchi. L’arca dell’alleanza è, almeno in parte, una scusa per un duello di cervelli, un trofeo da presentare al mondo per dimostrare di essere il migliore nel campo. E quindi la vera differenza tra Jones e Belloq è che il secondo ha accettato di fare il salto definitivo e di passare dall’altra parte, di abbracciare la filosofia del fine che giustifica i mezzi; e quindi è destinato a vincere, perché non si fa problemi etici ad aiutare i nazisti. Belloq vince perché non ha scrupoli, e Indiana Jones perde perché si aggrappa tenacemente agli ultimi che gli sono rimasti.
Tutto questo discorso sulla sconfitta e sull’arrivare secondi culmina nella scena finale, cioè il momento in cui il fatto di non essere infallibile si dimostra il vero segreto del successo di Indiana Jones, o per lo meno ciò che gli salva la vita. Perché vincere sempre ti fa rilassare, ti fa credere di essere arrivato quando ormai mancano pochi metri al traguardo; quando vinci sempre smetti di mettere in discussione le cose e accetti che la vita stia facendo di tutto per compiacerti. E quindi, ottenuta l’arca dell’alleanza e assicuratosi il diritto di essere il primo ad aprirla, prima ancora di Hitler in persona, Belloq (e i gerarchi nazisti che sono con lui) viene definitivamente riconosciuto come forza del male e spazzato via dai fantasmi dell’arca; e Indiana Jones, che biblicamente chiude gli occhi e aspetta che tutto passi, sopravvive. Fino a pochi secondi prima lo sconfitto era lui: legato a un palo, prigioniero dei nazisti, destinato con ogni probabilità a una morte lenta e dolorosa. Tempo di aprire un prezioso artefatto millenario e la situazione si ribalta: il male viene spazzato via di colpo, e Indiana Jones rimane, più sopravvissuto che trionfatore, ma comunque vivo, vegeto e con una storia da raccontare.
Il tema della sconfitta continua in realtà anche con il finale, nel quale, dopo essere riuscito a recuperare uno degli oggetti più preziosi e ricercati della storia dell’umanità, Indiana Jones si vede costretto a cederlo al governo americano e a dimenticarsi della sua esistenza, invece di vederlo esposto in un museo com’era sua speranza. Se volete potete interpretare questo finale come il destino che dà a Indiana Jones quella spinta di cui parlava Belloq, ma nell’altra direzione: cosa sarebbe successo se l’arca fosse stata presentata al mondo, e l’archeologo con la frusta fosse diventato una superstar mondiale e soprattutto piena di soldi – un po’ come Belloq?