In Thor vivono due città e questo lo rende un tassello unico del MCU | Un film in una scena
In Thor il regista Kenneth Branagh fa una scelta insolita: caratterizza il contrasto dell'eroe attraverso due città. Ecco quali sono.
Ma a questo punto della corsa i giochi non erano ancora fatti. Thor era il film che non poteva fallire, ma anche quello che, sulla carta, era più difficile da far digerire al pubblico. Un semidio norreno dotato di martello e di parlata shakespeariana non era certo un concetto all’avanguardia né di grande appeal. Nell'immaginario collettivo c’erano ancora Xena (citata anche nel film), Conan, Hercules… e una terribile trasposizione dell’eroe nel 1988 che in pochi avevano rimosso dalla mente.
Il tutto gridava televisione, persino il casting. Un Chris Hemsworth all’epoca sconosciuto a livello mondiale... eccezion fatta per i fan della soap opera australiana Home and Away che l’aveva visto interpretare il personal trainer Kim Hyde per ben 171 episodi. Una cosa era certa: per rappresentare al meglio creature fantastiche, città volanti e tutto l’apparato visivo dei fumetti il film avrebbe drenato budget da ogni dove. La soluzione a tutti questi problemi fu quella di ingaggiare Kenneth Branagh. Un regista rodato, amato dalle produzioni, letterario e Shakespeariano, ma soprattutto sintetico.
L’Asgard del film si trasferisce sulla terra con Thor. Nel fumetto la città si adagia letteralmente sopra la terra. Poco importano le differenze, l’intero film si regge sul contrasto tra i due mondi. Thor è il tipico pesce fuor d’acqua, un supereroe al contrario. Se Superman arriva sulla terra come essere superiore, il Dio del tuono inizia la sua avventura come erede al trono con pieni poteri per poi perderli completamente nel mezzo. Nell’equilibrio della sceneggiatura, insolita e rischiosa per gli standard Marvel dell’epoca, l’obiettivo del viaggio dell’eroe è la riscoprire una sopita umanità, non imparare ad essere un superuomo.
Per simboleggiare questo viaggio sbilenco, non sempre riuscito nelle sue intenzioni, sono state usate proprio le due città. Una rappresenta il lato divino, l’altra il lato “terrestre” di Donald Blake (alter ego provvisorio di Thor nel film e nei comics). La città del New Mexico è ricostruita quasi interamente nel set. Era progettata per richiamare le forme e la geografia di Asgard, seppur ad un arido livello terreno. La strada principale porta quindi a una torre (di trasmissione), le strade sono ampie e portano verso uno spazio vuoto. I personaggi salgono sui tetti e guardano le stelle, Heimdall al contrario osserva i fatti sulla terra. Un grande luogo solitario nel deserto e un glorioso agglomerato di tecnologia e vita nello spazio.
Asgard è stata disegnata per richiamare l’aspetto più classico del disegno di Jack Kirby, poi portato a compimento con più coraggio da TaikaWaititi in Thor: Ragnarok. Branagh cerca di richiamare la dinamicità e l’estetica delle tavole del fumetto riprendendo l’azione con inquadrature oblique e composizioni dinamiche che, a dirla tutta, poco aiutano la storia. La fotografia, ad opera di Haris Zambarloukos, tra le migliori viste nei film Marvel, mette in contrasto i due luoghi. Uno è caratterizzato dal metallo scintillante, i colori sono pieni, caldi, come il mantello del Tonante. Sulla terra invece la polvere attenua le caratteristiche gloriose di Asgard. Una versione povera, umile, come il sentimento che Thor dovrà imparare a fare suo.
Per la lotta tra Thor e il Distruttore Branagh voleva un confronto in stile western. Come set ha quindi utilizzato un vecchio ranch, poi riconvertito per essere coerente con il film. I danni e le esplosioni per la maggior parte furono realizzati dal vivo. La costruzione di ambienti così complessi è spesso, nelle ormai super segrete produzioni MCU, delegato alla computer grafica con risultati spesso eccellenti e “invisibili”. La difficoltà per gli attori è invece maggiore: non è semplice interagire con elementi di scena inesistenti.
Ecco quindi che l’approccio di Branagh è, per certi versi, rivoluzionario. Pienamente teatrale, anche in un blockbuster di questa portata; che usa i luoghi dell’azione per rappresentare lo stato interiore. L’effetto televisione viene evitato proprio limitando la scala (nel secondo e nel terzo capitolo vedremo molti più ambienti), ma raggiungendo la perfezione formale con il "poco" a disposizione.
Certo, Thor non si può considerare un film fatto con poco, ma è sicuramente una produzione che riesce a ottimizzare al massimo tutte le sue risorse, molto meglio di altri. Riesce, attraverso il contrasto interiore “essere o non essere, Dio o umano”, a fare accettare la magia a un pubblico che, all’epoca, aveva ancora bisogno di considerarla “scienza non ancora scoperta”.
Con Thor nasce la “riva sinistra” della Marvel. Quella cosmica, come la si chiama adesso. Ma che, all’epoca dell’uscita in sala, rischiava di perdersi nell’anonimato di un eroe incredibile e poco credibile. È bastato invece abbandonarlo sulla terra, per renderlo interessante. È stato necessario gettarlo da un ponte arcobaleno, per renderlo colorato e tridimensionale. E questa idea è stata passata da Branagh a Waititi e da quest’ultimo ai fratelli Russo i quali, rendendolo un alcolizzato Hikikomori in Avengers: Endgame hanno riproposto all’estremo questo gioco continuo di guadagno di potere e perdita.
Perché Thor è uno dei pochi supereroi, insieme all’Uomo Ragno, che riusciamo a percepire come eroe proprio quando cade. Lo riteniamo degno del nostro sguardo solo quando perde tutto.