In 28 giorni dopo c'è molto più degli "zombi che corrono"

28 giorni dopo è passato alla storia come “la nascita degli zombi che corrono”, ma nel film di Danny Boyle c’è molto di più

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28 giorni dopo è su Star di Disney+

Baciato da un successo inaspettato che gli fece incassare dieci volte il suo limitato budget, salutato da una parte della critica come uno dei migliori rappresentanti del suo sottogenere, 28 giorni dopo ha la sfortuna di venire ricordato principalmente per un motivo, che viene riassunto nella fastidiosa espressione “ci sono gli zombi che corrono”. Non importa che Danny Boyle non lo consideri tale ma citi piuttosto L’orrenda invasione come sua ispirazione primaria; non importa che la parola con la Z non venga mai usata per tutto il film, e che venga messo in chiaro fin da subito che “gli infetti” possono morire di fame, e quindi sono indubbiamente vivi, non morti viventi. Non importa neanche che gli ZCC non siano così male come vengono dipinti dai loro detrattori, e che nel 2002 avesse senso reimmaginare la loro figura in questo modo. Comunque la mettiate, 28 giorni dopo è condannato a venire ricordato perché “è quello con gli zombi che corrono”; eppure ci sarebbero tante altre cose più interessanti da dire sul film di Danny Boyle.

Potremmo per esempio parlare di come, indipendentemente dalla causa che ha scatenato la fine della civiltà, 28 giorni dopo sia uno dei più begli affreschi post-apocalittici del cinema moderno. Appartiene al sottogenere “l’apocalisse è stata l’altroieri”, nel quale ci sono ancora macchine che funzionano e luce elettrica e acqua corrente, secondo la teoria (più che condivisibile) che di fronte a un evento catastrofico su scala nazionale saranno prima le fondamenta dello stato di diritto a crollare, e solo dopo qualche tempo anche le infrastrutture che lo sorreggono. Ci sarà sempre gente, nei giorni immediatamente dopo la fine del mondo, che riuscirà comunque a produrre ancora un po’ di elettricità e di acqua calda, e a simulare una qualche parvenza di normalità.

(l’altra versione della post-apocalisse è ovviamente quella Mad Max, nella quale la fine del mondo è stata tanto tempo fa e il mondo come lo conosciamo è definitivamente sparito)

E Danny Boyle ci immerge nella sua visione di un’Inghilterra post-invasione di infetti grazie a tanta camera a mano e tanto coraggio produttivo: il regista inglese riuscì a farsi dare il permesso di chiudere pezzi del centro storico di Londra per girare le sequenze iniziali, e tutto quello che vedete è stato ottenuto nel corso di una serie di shoot lampo organizzati di solito la domenica all’alba, prima che il traffico diventasse tale da rendere il blocco stradale un problema per la circolazione. Non è una Londra svuotata in CGI: è effettivamente come appare Londra quando non c’è gente in giro, un’immagine che nel 2021 acquista un sapore tutto nuovo visti i ben noti eventi di quest’ultimo anno. E anche quando esce da Londra, Boyle riesce sempre a scegliere i luoghi giusti dove spostare il suo gruppo composto da tre, poi due, poi quattro, poi ancora tre persone in cerca di una speranza: una villetta in un quartiere residenziale di periferia, un cimitero di campagna, il parcheggio abbandonato di un’area di servizio in mezzo al nulla... è un viaggio di fuga dalla civiltà in un Paese che è diventata la rappresentazione pratica del “l’inferno sono gli altri” di Sartre.

Oppure potremmo parlare del cast: in un road trip nel quale gli incontri con gli infetti sono relativamente pochi e relativamente brevi, il peso dell’empatia cade tutto sulle spalle di Cillian Murphy e Naomie Harris (e in misura minore Brendan Gleeson e Megan Burns), e anche sulla capacità di Alex Garland di scrivere per loro dei personaggi il più tridimensionali possibile, visto che passeranno parecchio tempo a interagire. Murphy è gelido e magnetico come sarà più o meno sempre nei successivi vent’anni di carriera, ma qui ha 26 anni ed è in una versione Trainspotting che gli aggiunge uno strato di vulnerabilità che con gli anni ha un po’ perso; Harris è sempre stata un talento che però per anni ha preferito sguazzare nel cinema di genere divertendosi un sacco, e alla quale è servito Moonlight per farsi notare per davvero. Entrambi i loro personaggi sono descritti con pochi tratti, ma abbastanza suggestivi da permetterci di immaginare la loro backstory e investire emotivamente su di loro – cioè qualcosa che a Garland è sempre venuto bene indipendentemente dal genere affrontato, ma forse mai bene come qui.

Cillian Murphy

Se preferite potremmo parlare del fatto che al tempo Danny Boyle aveva ancora una gran voglia di affermarsi anche come regista di genere, di fantascienza (Sunshine) e horror, e questo nonostante la gestione delle scene d’azione sia la cosa che gli viene peggio. Il difetto più grosso di 28 giorni dopo è una certa tendenza a buttare tutto in caciara non appena compaiono gli infetti, e puntare sulla confusione, sul montaggio frenetico e sulla camera a mano traballante per trasmettere ansia e terrore – quando invece il risultato ottenuto è un forte mal di testa. D’altra parte era il 2002, il budget era basso e questo stile più crudo e finto-documentaristico stava cominciando a farsi largo al cinema (The Bourne Supremacy, nel quale Paul Greengrass consacra la shaky cam e la presenta al mainstream, è di due anni dopo) e si può perdonare a Boyle il fatto di non avere previsto che questa specifica soluzione sarebbe invecchiata male.

Un altro segno dei tempi, e uno dei dettagli più sottovalutati di 28 giorni dopo, è la colonna sonora: lo ripetiamo, era il 2002 e il postrock sembrava dovesse dominare il mondo, e infatti John Murphy compone quello che di fatto è un album che galleggia tra Mogwai, Explosions in the Sky e Godspeed You! Black Emperor (dei quali nel film si sente anche un pezzettino di East Hastings). Potremmo parlare di questo, o di come Alex Garland abbia raccontato che l’ispirazione principale per la sceneggiatura è Resident Evil – il gioco di Capcom, non il film uscito lo stesso anno e che è altrettanto responsabile per la moda degli zombi che corrono. Potremmo discutere se sia o meno il miglior film di Danny Boyle (spoiler: lo è), o se il finale originale sia meglio o peggio dei tre finali alternativi, uno dei quali era talmente estremo che non è mai neanche stato filmato. Potremmo giocare a fare la lista dei film, serie TV e videogiochi che sono stati influenzati da 28 giorni dopo, partendo ovviamente da The Last of Us.

Gruppo

E invece continuiamo solo a parlare degli infetti e delle loro doti atletiche, e a dimenticarci di tutto il resto - cioè quello che rende 28 giorni dopo un grandissimo horror, zombi corridori o meno.

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