Il viaggio rapido, tradimento del world design
Alcune riflessioni sulla meccanica del viaggio rapido nei videogiochi open world
Si sono dunque create queste paradossali situazioni in cui quello che appare a tutti gli effetti come un film interattivo, ad esempio per mera qualità visiva, mostra al contempo assurdità ancora più marcate di quelle del passato, facendoci muovere e reagire in modi privi di alcun nesso logico nonostante la credibilità iniziale garantita dal fotorealismo. Inoltre, se da un lato si cerca di far sentire l'interattore “proprio come se fossi lì!”, in realtà spesso abbiamo a che fare con un gioioso e colorato parco giochi, sicuramente divertente e appagante, quanto però contraddittorio e a volte addirittura dannoso per la credibilità puramente contestuale del mondo di gioco.
Nel corso del tempo, almeno per quanto riguarda proprio quei videogiochi che vogliono creare dei mondi credibili e immersivi, si è dunque frequentemente riproposto questo implicito scontro tra il desiderio di far sempre divertire l'interattore, a ogni costo, e il cercare di farlo sentire sempre immerso e coinvolto dal racconto. La sintesi più efficace di questa dicotomia è rappresentata dal cosiddetto viaggio rapido, una meccanica diffusasi tantissimo nelle ultime due generazioni a seguito dell'esplosione dei giochi a mondo aperto. Infatti, come ribadito prima, volendo offrire un mondo costantamente divertente ma al contempo credibile, spesso molti videogiochi open world non riescono a offrire nessuna delle due cose: il viaggio rapido, pensato per farci muovere velocemente da un punto all'altro della mappa di gioco senza dover sopportare la tipica ripetitività dei sandbox, al contempo rende superfluo e spesso contraddittorio proprio il muoversi all'interno di mondi così dettagliatamente ricreati.
[caption id="attachment_169532" align="aligncenter" width="1280"] The Legend of Zelda: Breath of the Wild stimola l'esplorazione di ogni singola ambientazione[/caption]
E forse non è un caso che la maggior parte dei giochi che prevedono una minore presenza di viaggi rapidi, o una inferiore attenzione al contenuto meramente quantitativo (numero di cose da fare, sbloccare, vedere), generino spesso nell'utenza critiche relative all'eccessiva ripetizione di luoghi e attività, così come non è di certo sorprendente che aggiunte come eventi casuali e respawn delle missioni secondarie giornaliere e settimanali (si guardi ad esempio agli ultimi Assassin's Creed) siano state accolte come manna dal cielo da un mercato voglioso di riempire tutto quel vuoto. Ma parliamo davvero di un vuoto? In realtà, ciò che sembra infastidire di più dell'assenza di cose da fare è la costante presa di coscienza dell'interattore di essere di fronte a un prodotto di esclusivo svago, e di conseguenza il pensiero principale che si manifesta nella mente di chi gioca è “quanto mi sto divertendo?”, e non di cosa possono voler significare, ad esempio, quel vuoto, quel silenzio. Pochi giochi hanno avuto il coraggio (No Man's Sky, Mafia III) e la forza economica e mediatica (Red Dead Redemption II, The Legend of Zelda: Breath of the Wild) necessari a stressare questi concetti e cercare di fare qualcosa di diverso, mentre in molti altri casi si rinuncia con una certa facilità a offrire anche nell'esplorazione del mondo di gioco le stesse sensazioni ed emozioni che si vogliono ottenere tramite cinematiche, ambientazioni e molto altro.
Ovvio, non tutti i videogiochi open world sono così: il conflitto tra emozione generata dal design e quella ricreata tramite il racconto più esplicito si verifica solo in alcuni casi, e di certo il ruolo del viaggio rapido in Super Mario Odyyssey non ha lo stesso peso di quello di The Witcher 3: Wild Hunt. Il punto fondamentale della questione è cercare di capire quando il viaggio rapido si trasforma in un fallimento e nel tradimento di un world design pensato per essere immersivo, credibile, coerente con i temi trattati dal gioco e con l'esperienza ricercata, e quando invece riesce a supportare il disegno complessivo della designer o dell'autore, in modo tale da poter trasformare delle banali critiche sulla povertà della mappa in uno strumento per capire la volontà del team o della firma dietro il videogioco che stiamo vivendo.