Il ritorno (su Netflix) del Ritorno del re
Il terzo capitolo della Trilogia dell’anello arriva in streaming: finalmente il quadro è completo
Se mettete su La compagnia dell’anello alle 10 del mattino e contate nel budget anche un paio d’ore tra pausa pranzo, pausa bagno e pausa sigaretta (se fumate), arriverete alla fine del Ritorno del re in tempo per andare a letto presto, con le lacrime agli occhi e il cuore rigonfio di gioia. E la cosa miracolosa dell’opera di Jackson è che proverete gran parte di queste emozioni negli ultimi minuti del terzo film, quelli che tirano le fila di un’epica costruita lentamente e minuziosamente nel corso di nove ore di girato, quelli dove tutto quello per cui avete tifato, urlato, sofferto ed esultato fin lì trovano la loro risoluzione – o meglio le loro risoluzioni, una dopo l’altra, come un sendoff da ultimo episodio di serie TV, e come d’altra parte succedeva anche nel romanzo di Tolkien, i cui ultimi capitoli sono una collezione di addii e di chiusure di archi (E LA MIA ASCIA!) scritti per farci rimpiangere un personaggio dopo l’altro.
Fu davvero lesa maestà?
Ed è proprio su questo dettaglio che vale la pena soffermarsi riguardando Il ritorno del re. Quando il film uscì moltissimi appassionati di Tolkien (tra cui chi sta scrivendo queste parole) se la presero un po’ per come Jackson aveva deciso di trattare tutto quello che succede dopo la distruzione dell’Anello. Il motivo è semplice: Il signore degli anelli è prima di tutto un romanzo di formazione, una parabola di crescita di quattro sempliciotti che abbandonano i rassicuranti confini della loro terra natìa per addentrarsi nel vasto mondo là fuori, e che ne tornano cambiati, migliorati, cresciuti. E quel dolorosissimo epilogo, con la Contea distrutta da Saruman e il Male che trova il tempo per un ultimo colpo di coda, e con il power trip degli hobbit che ormai esperti guerrieri risolvono la situazione tirando delle gran mazzate, è anche quello che dona senso alle mille e passa pagine precedenti, la chiusura di un cerchio apertosi nel momento in cui Sam Gamgee si rende conto che “se faccio un altro passo non sarò mai stato così lontano da casa mia”.
È un gesto arrogante, certo, una mossa autoriale fortissima che per qualcuno potrebbe anche puzzare di lesa maestà; ma è anche in linea con il carattere, appunto, leggendario del romanzo di Tolkien, del suo racconto di un’epoca passata/perduta filtrato dagli anni e dalla fallibilità della narrazione orale (sì, lo sappiamo che stiamo parlando di un romanzo, ma non vi fissate sui dettagli). È la stessa storia raccontata da un altro punto di vista, uno dei tanti possibili quando si è di fronte a un’opera così complessa; da qualche parte nel multiverso c’è una versione della Terra dove Peter Jackson ha raccontato la storia della distruzione dell’Anello dal punto di vista degli ultimi Elfi rimasti sulla Terra di mezzo, o da quello dei contadini di Rohan che poveracci tutto quello che hanno esperito a riguardo è stata la distruzione dei loro raccolti e la morte dei loro cavalli.
Chissà come sarebbe Il signore degli anelli visto dal punto di vista dei cavalli.