Il ritorno dei morti viventi ha ancora tanto da insegnare
Il ritorno dei morti viventi ha quasi quarant’anni ma ha ancora tante cose da dire in termini di creatività e attitudine
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Hooper decise infatti di mollare il film per dedicarsi a un altro progetto, che in Italia uscirà con il clamoroso titolo di Space Vampires (Lifeforce in originale). Il film era stato scritto da un giovane sceneggiatore in rampa di lancio che si era fatto notare negli anni precedenti prima grazie a Dark Star di Carpenter, e poi a un film un po’ più famoso del quale scrisse la sceneggiatura intitolato Alien. Dan O’Bannon sognava però di poter debuttare anche alla regia, e quando Hooper mollò Russo per dedicarsi a Space Vampires lui approfittò dell’occasione. Prima venne assunto per sistemare lo script di Il ritorno dei morti viventi (che alla fine verrà accreditato a lui), poi direttamente per dirigere il film. Con quattro milioni di dollari, e svariati galloni di sangue finto a disposizione, O’Bannon decise che era arrivato il momento di sfruttare l’occasione della vita.
E in effetti Il ritorno dei morti viventi ha l’entusiasmo di un film che è stato girato da qualcuno che era convinto di essere sul punto di svoltare. Si basa su una serie di idee assurde, iperviolente, cafone, volgari e scorrettissime, ed è girato con lo stesso disinteresse per il buon gusto e la stessa attitudine punk dei suoi protagonisti. È una storia che sembra uscita dai Simpson, se non fosse che i Simpson sono nati dopo. C’è un magazzino di materiale medico (scheletri, corpi dissezionati, mezzi cani per le lezioni di anatomia) che in cantina custodisce un tetro segreto. C’è un gruppo di punk che ha voglia di fare festa. C’è un complotto governativo. C’è del citazionismo. Proviamo a mettere ordine.
Tecnicamente, si potrebbe vedere Il ritorno dei morti viventi come un sequel diretto di La notte dei morti viventi. Gli zombi nascosti nelle cantine del magazzino non sono infatti cadaveri rianimati a caso: sono gli stessi che, anni prima, emersero da un cimitero della Pennsylvania terrorizzando la comunità locale – quelli raccontati nel film di Romero. Dopo l’incidente furono prelevati, chiusi in contenitori ermetici sigillati inscalfibili indistruttibili, e spediti a un deposito segreto dell’esercito. Siccome però “sai com’è l’esercito” come dice senza alcuna paura uno dei protagonisti del film, il pacco non arrivò mai a destinazione, ma finì nel magazzino succitato, dove il proprietario si premurò di nasconderli nel luogo più irraggiungibile dell’edificio.
Il bello di Il ritorno dei morti viventi è che i suoi protagonisti sono tutti degli idioti. Non c’è motivo per conservare cadaveri rianimati sott’olio nella tua cantina invece di riconsegnarli all’esercito, e non c’è motivo per confidare questo segreto ai tuoi dipendenti. I quali non hanno motivo di scendere in cantina per ammirare i cadaveri, aprendo accidentalmente uno dei contenitori e rilasciando il gas tossico che attacca a chi lo respira il morbo degli zombi. Non dovrebbero neanche prendere quei cadaveri rianimati e buttarli in un inceneritore che procederà a gettarne le ceneri in cielo mescolandole alle nuvole e creando dunque una versione della pioggia acida che invece di corrodere le cose rianima i cadaveri, ma lo fanno, e proprio di fianco a un cimitero.
Non c’è motivo per cui un gruppo di punk perdigiorno debba decidere di fare festa proprio al cimitero mentre aspettano che il loro amico Freddy esca dal magazzino dove lavora (e dove ha appena respirato il gas zombizzante). Ma loro lo fanno lo stesso, bevendo birrette, fumando sigarette, ascoltando musica cupa e rumorosa, spogliandosi e facendo l’amore tra le tombe perché sono punk. A Il ritorno dei morti viventi non frega nulla di nulla: se una cosa funziona la si fa succedere, anche se è cretina fino al midollo. Fa parte della sua natura di film comico: essere popolato di squinternati che fanno sempre la scelta sbagliata, e che ci facilitano quindi nell’operazione di ridere di loro e non solo con loro.
Non c’è una singola svolta di trama del film di O’Bannon che non ti faccia mettere le mani nei capelli e alzare gli occhi al cielo esclamando “ma non è possibile!” – ed è bello così. È comicità che nasce dall’incapacità di stare al mondo del 100% dei coinvolti, incompetenza elevata ad arte: non è facile mantenere il sottile equilibrio tra l’affetto per dei personaggi assurdi e sopra le righe e la voglia di vederli squartati come archetipo prevede, e Il ritorno dei morti viventi vive tutto su questo filo sottile. E funziona perché tutta questa scemenza è funzionale alle scene d’azione, che non avrebbero ragione di esistere se i protagonisti del film non fossero idioti.
Il ritorno dei morti viventi è un tripudio di sangue, ultraviolenza talmente esagerata da risultare buffa, effetti speciali pratici e ammazzamenti creativi: difficile chiedere di più a un film di zombi. È peraltro il primo rappresentante del genere nel quale i morti viventi si nutrono specificamente di cervelli, uno stereotipo che verrà poi ripreso e rimasticato (ah ah ah) in mille salse da tutti i film di zombi usciti successivamente. È un piccolo grande culto, che celebra l’improbabile ma non troppo matrimonio tra il massacro adolescenziale e il menefreghismo punk. È scuola di cinema horror, ed è un peccato che dopo di questo Dan O’Bannon abbia diretto solo un altro, dimenticabile film.