Il regno del pianeta delle scimmie è quello che voleva fare Tim Burton
Il regno del pianeta delle scimmie è una versione riveduta, corretta e migliorata di quello che aveva tentato di fare Burton nel 2001
Il regno del pianeta delle scimmie è su Disney+
LEGGI – Il regno del pianeta delle scimmie, la recensione
Le altre due cose del pianeta delle scimmie
Il primo degli altri due dettagli è quanto sia ormai diventato complicato da capire questo franchise, che comprende una prima saga da cinque capitoli, un remake caduto nel nulla, una trilogia anch’essa reboot che ha avuto un successo strepitoso e ha ridefinito il concetto di “pianeta delle scimmie” per questo millennio… e ora questo Il regno del pianeta delle scimmie, sequel della trilogia reboot che potrebbe a sua volta fare da capofila per una nuova trilogia, la quale a sua volta potrebbe dar vita a un’ulteriore trilogia che, a questo punto, finiremo di vedere nel 2040. Quest’abbondanza di film rende difficile tenere traccia di quanto successo e delle somiglianze tra capitoli distanti anni se non decenni, e concepiti come parte di un’opera a sé stante.
Il terzo dettaglio è quello più interessante, e del quale discuteremo qui: Il regno del pianeta delle scimmie è, a ben guardare, una versione riveduta, corretta e decisamente più efficace di quanto Tim Burton aveva provato a fare nel 2001, fallendo miseramente nonostante dei risultati al botteghino più che accettabili (eufemismo, visto che costò 100 milioni e ne incassò quasi 400). Burton aveva provato a ricominciare da capo, a reinventare la saga del pianeta delle scimmie raccontando una storia più scimmiocentrica, nella quale gli umani fossero carne da macello a eccezione del protagonista, che fungeva però da sguardo esterno che veniva catapultato sull’arcinoto pianeta contro la sua volontà. Il film di Wes Ball non fa esattamente questo, ma ha parecchi punti in comune con quell’approccio.
Il regno del pianeta delle scimmie è un film di scimmie
Innanzitutto, Il regno del pianeta delle scimmie è un film interessato più alle scimmie che agli umani; a rappresentare un presente nel quale i primati sono dominanti e gli umani stessi sono ridotti a bestie senza cervello, o almeno così pare, instupiditi e privati anche della facoltà di parlare da quello stesso virus che avevamo visto in azione nella trilogia precedente. La quale era una storia di uomini contro scimmie, il racconto di una guerra che precede un’apocalisse. Il film di Wes Ball è invece molto esplicitamente un film post-apocalittico, tanto che la prima, spettacolare sequenza potrebbe essere uscita da una versione scimmiesca di Horizon: Zero Dawn, con quei palazzi in rovina che diventano montagne di metallo da scalare e dalle quali zompare agilmente.
Addirittura, per l’intera prima ora di Il regno del pianeta delle scimmie gli umani non si vedono – il film ci presenta i suoi nuovi protagonisti, in particolare la scimmia Noa, in una sorta di versione pelosa di Avatar. Tutte le città che vediamo sono scimmiesche, come lo è la società che impariamo a conoscere, divisa in clan con tradizioni variegate e a tratti incomprensibili (la fissa della tribù di Noa per l’addestramento degli uccelli è una specie di pistola di Cechov che ci perseguita per tutto il film), e sulla quale incombe l’ombra di un dittatore convinto di essere il discendente (o la reincarnazione) del Cesare della trilogia precedente. C’è un’aria quasi fiabesca, se non addirittura fantasy, nel world building di Il regno del pianeta delle scimmie, una sensazione molto simile a quella che si provava guardando il film di Burton.
Una grande avventura dal punto A al punto B
In comune con il disastro burtoniano, poi, Il regno del pianeta delle scimmie ha la struttura narrativa. Dove la trilogia di Cesare era più aderente al modello degli originali, con parti d’azione intervallate a riflessioni socio-politiche e a lunghi dialoghi filosofici, questa nuova trilogia inizia con un film che segue la classica struttura campbelliana: Noa vive in una situazione di equilibrio, questo equilibrio viene rotto dall’arrivo di un elemento imprevisto (in questo caso due: Freya Allan e Proximus Caesar), e il film diventa quindi un viaggio dell’eroe nel corso del quale il nostro protagonista costruisce il suo gruppo e va in cerca della sua famiglia e della sua tribù. C’è addirittura una scimmia-Gandalf, Raka, che si sacrifica gettandosi in un fiume per salvare gli amici.
Un’altra caratteristica burtoniana è la scelta di deumanizzare gli umani, che è vero, nel film del 2001 ancora parlavano, ma erano di fatto schiavi, non competitori diretti delle scimmie. Il film di Ball fa un passo ulteriore privando i nostri conspecifici della capacità di parlare, e presentandoceli come bestiame o come animali fastidiosi da eliminare. Ci sono anche altri dettagli in comune tra i due film, uno su tutti il fatto che il climax cominci con una grossa esplosione, ma, lo ribadiamo, è soprattutto lo spirito di Il regno del pianeta delle scimmie che rimanda al fallimento di Burton più che alla trilogia precedente o alla pentalogia originale. L’idea cioè che un film che parla di un pianeta delle scimmie debba concentrarsi appunto sulle scimmie, sulla loro società, sul modo in cui hanno ricostruito il mondo dopo aver vinto la guerra contro gli umani. È un’opera bestiale, ecco, nella quale quel che resta dell’intelligenza umana viene usato nel tentativo di ripristinare il nostro presunto ruolo nel mondo, ma nella quale quel che conta davvero è quello che pensano le scimmie. Siamo curiosi di vedere come evolverà (termine non scelto a caso) questa scelta creativa, e che direzioni prenderà la saga nei prossimi due capitoli: la speranza è che il ritorno degli “umani intelligenti” non rimetta di nuovo le scimmie in secondo piano.