Il regista di Jodorowsky’s Dune riflette sulle immagini di Jodorowsky’s Tron fatte con l’intelligenza artificiale 

Frank Pavich, regista di Jodorowsky's Dune discute le implicazioni dell'intelligenza artificiale sul lavoro creativo

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Nella metà degli anni ’70 la cosa più vicina alla meraviglia e alla frustrazione generata dalle creazioni dell’intelligenza artificiale deve essere stato il Dune di Jodorowsky. Si inserisca il comando: libro di Frank Herbert, diretto dal più folle regista del tempo, con musiche dei Pink Floyd, storyboard nello stile di Chris Foss, H.R. Giger e Jean Giraud, attori Salvador Dalí, Mick Jagger e Orson Welles. Quello che l’intelligenza artificiale dovrebbe restituire è la bibbia di Dune. Ovvero quel documento che raggruppa le idee e i bozzetti preparatori del film mai girato da Jodorowsky.

Oggi programmi come Midjourney sono strutturati per imparare da enormi cataloghi di immagini ed elaborare contenuti originali a partire da input. Nel caso specifico da descrizioni testuali. Bastano delle combinazioni di parole più o meno specifiche per produrre dei risultati originali. Possono essere fotorelistici, possono copiare stili, o inventare qualcosa di mai riprodotto prima partendo da enormi librerie di immagini già esistenti (suscitando quindi un importante dibattito sul diritto d’autore che non si risolverà presto). 

Con le intelligenze artificiali si possono creare fotogrammi di film mai esistiti. Uno di questi è la versione del 1976 di Tron diretta da Alejandro Jodorowsky. Le riproduzioni elaborate sono arrivate all’attenzione di Frank Pavich, il regista di Jodorowsky’s Dune, il documentario dedicato all’impresa fallita. Pavich è uno dei pochi ad avere consultato la bibbia del film, ad avere quindi intravisto quello che avrebbe potuto essere ma che non sarà. La stessa cosa gli è capitata osservando queste immagini rielaborate dal computer. La sensazione di familiarità, quello spaesamento da “ma dove l’ho già visto?”, per un prodotto che però non esiste. 

Turbato e preoccupato, Pavich ha scritto un editoriale per il NY Times. Parte da domande che non hanno risposta. 

Cosa comporterà quando i registi, i concept artisti e gli studenti di cinema potranno vedere con la loro immaginazione, quando potranno dipingere usando tutto il materiale visivo della civiltà umana archiviato digitalmente? Quando al nostra cultura inizierà ad essere influenzata dalle scene, dalle scenografie e dalle immagini di vecchi film che non sono mai esistiti o che non sono ancora stati immaginati?

L’intelligenza artificiale può visualizzare film che non esistono. E così facendo può a sua volta ispirare nuove scene create realmente da un essere umano. Dice Pavich, un po’ come è accaduto per il Dune di Jodorowsky. La tesi del suo documentario è che le copie scomparse dei libri con i bozzetti siano girate di mano in mano ad Hollywood ispirando altri registi. Vede tracce dei disegni di Moebius e degli storyboard in Alien, Blade Runner, Star Wars, Terminator. Un’ipotesi suggestiva ed esposta in maniera convincente nel documentario, seppur non confermata.

Ecco il problema che pone Pavich è dello stesso tipo. Che cosa potrà accadere al lavoro creativo se le immagini realizzate artificialmente iniziassero a guidare l’immaginario? Se incontrassimo fotogrammi di film che non esistono e ci si lasciasse ispirare da loro, citandoli allo stesso modo di Dune? Una domanda aperta che non presuppone una risposta necessariamente negativa. 

Il regista rimprovera semmai alla tecnologia di fargli desiderare ciò che non può avere. E punta il dito contro l’ambiguità della fonte creativa. È chi formula il comando a generare le figure? È l’intelligenza artificiale o la paternità va attribuita a chi ha creato le opere studiate, rielaborate, e usate come traccia dal programma? Ma d’altro canto: quale arte non ha rubato mai da altra arte?

Queste riflessioni si sommano alle molte che popolano il dibattito artistico. Sebbene poste in modo molto interlocutorio rivelano una certa ansia nell’immaginare un futuro in cui l’uso di queste tecnologie non è regolamentato.

Oltre a delimitare i confini, capire questi strumenti, e tutelare i diritti, si può fare poco per capire quale sarà il vero impatto sul lavoro quotidiano dei narratori e sui film che arriveranno. Per quello, chiude Pavich, bisognerà aspettare. Probabilmente non troppo. 

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