Il processo ai Chicago 7, tra verità e invenzione drammaturgica

Il processo ai Chicago 7 racconta una storia a metà tra realtà e fantasia: ecco come sono andate davvero le cose, e come le ha immaginate Aaron Sorkin

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Il processo ai Chicago 7, uscito su Netflix qualche giorno fa (qui la nostra recensione), è già uno dei court drama più belli del decennio, una sinergia perfetta tra afflati documentaristici e quella voglia di dialoghi taglienti e di scene madre che caratterizza da sempre l’opera omnia di Aaron Sorkin. In lavorazione da quasi 15 anni e uscito nel momento storico tristemente più adatto a renderlo rilevante non solo in quanto documento storico, è la storia di uno (perdonateci il bisticcio) storico processo tenutosi a Chicago nel 1969, che vedeva sul banco degli imputati otto (poi sette) tra i presunti responsabili degli scontri tra manifestanti e polizia a Grant Park, dalle parti della convention democratica dell’agosto del 1968.

È anche una grande fantasia progressista del suo autore, che miscela sapientemente realtà, mezze verità e vere e proprie bugie per mandare un messaggio diverso da quello che i veri Chicago 7 consegnarono alla storia. Ah, prima di cominciare: se non avete visto il film fermatevi qui, perché tutto quello che segue contiene spoiler.

Joseph Gordon Levitt

Il processo ai Chicago 7: che cosa manca

Prima di parlare delle aggiunte o degli spostamenti strategici di Sorkin, vale la pena soffermarsi su quello che manca, in particolare su un paio di episodi che hanno caratterizzato il processo e che sono stati esclusi dalla scrittura del film. Il primo riguarda uno stunt pre-scontri organizzato da Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen), che nei giorni della convention presentò insieme allo Youth International Party il suo candidato alla presidenza degli Stati Uniti, da opporre a Nixon e al democratico Humphrey. Il candidato è Pigasus the Immortal, 66 chili di maiale comprato dal musicista Phil Ochs e presentato con lo slogan (crudelissimo, a dirla tutta) "if we can't have him in the White House, we can have him for breakfast" ("se non possiamo averlo alla Casa Bianca almeno possiamo mangiarlo a colazione"). Lo show costò a Hoffman, Jerry Rubin (Jeremy Strong nel film) e al maiale Pigasus una serie di denunce, aggiunte al carico che già i due (ma non Pigasus, che fu liberato) si portavano sulle spalle in occasione del processo di cui parla il film.

L’altro episodio riguarda il finale del film, che è anche la sequenza più interessante di cui discutere. Innanzitutto perché non è mai successa, o meglio, non è successa così e soprattutto non è successa ala fine del processo ma circa a metà, e ha tra l’altro causato un incidente che sarebbe stato benissimo anche durante il film di Sorkin – ma di certo non nel finale, quando serve concentrazione, emozione e magari una lacrimuccia. Oltre a provare a leggere i nomi di tutti i soldati morti in Vietnam, David Dellinger (John Carroll Lynch, e non Tom Hayden/Eddie Redmayne) portò in aula, e come lui gli altri sei, la bandiera del Vietnam; il giudice Hoffman (Frank Langella) intimò di farle sparire, i sette si rifiutarono e la cosa si risolse in un tiro alla fine tra Hoffman e un ufficiale giudiziario. Un momento di grandissima slapstick comedy che si sarebbe adattato alla perfezione al personaggio di Hoffman, ma avrebbe rovinato quello che è senza dubbio il momento più importante di tutto il film con una risata fuori posto.

processo ai Chicago 7 Frank Langella

Il processo ai Chicago 7: che cosa non è andato come lo racconta Sorkin

Come accennato sopra, il climax di Il processo ai Chicago 7, cioè il momento in cui Tom Hayden legge in aula i nomi degli oltre 4.500 soldati morti in Vietnam dall’inizio del processo, è un momento di straordinaria efficacia drammatica, al quale il film arriva dopo due ore a ritmo quasi insostenibile e nelle quali le ingiustizie e gli abusi di potere sono andati sempre peggiorando; quando Eddie Redmayne comincia a recitare la lista dei caduti si esulta anche per scaricare la tensione accumulata fin lì, e quando anche Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt) si alza in un gesto di solidarietà non tanto agli accusati quanto ai soldati morti, che sono poi il vero motivo per cui è successo tutto, ci si convince anche solo per un attimo che forse è possibile trovare un punto d’incontro da cui ripartire per ricostruire la società, anche quando la si pensa in modo radicalmente diverso su quasi tutto.

È il messaggio ultra-ottimistico che conclude e corona il film, e lega insieme tutti i fili degli infiniti discorsi portati avanti fin lì dal film, primo fra tutti lo scontro ideologico tra le due anime della sinistra americana – quella rivoluzionaria e movimentista di Hoffman e quella più accademica e istituzionale, o realista e pragmatica se preferite, di Hayden – che è vivo ancora oggi e contro il quale Sorkin sembra voler lanciare un monito piuttosto esplicito (e in questo senso la già citata inclusione di Schultz, che nella realtà era decisamente meno accomodante che nella finzione, è un’apertura anche ai presunti “buoni che stanno dall’altra parte” – è abbastanza chiaro che Il processo ai Chicago 7 è un film politicamente schierato?). È anche molto diverso dal messaggio che gli stessi Chicago 7, e il loro avvocato William Kunstler (Mark Rylance nel film), lanciarono il 20 febbraio 1970, nel giorno della lettura della sentenza.

processo ai Chicago 7 Sacha Baron Cohen

Cosa dissero davvero i Chicago 7

Innanzitutto, non fu Tom Hayden a chiudere il processo con le sue dichiarazioni, o meglio, non fu solo lui: Leonard Weinglass (Ben Shenkman), il partner di Kunstler, decise di non rilasciare dichiarazioni e di lasciare il suo turno appunto ai sette, rimasti a quel punto in cinque dopo l’assoluzione di Lee Weiner e John Froines. I quali rilasciarono ciascuno una dichiarazione più o meno incendiaria (Dellinger compreso, che nel film viene ritratto come il più mite del gruppo fino al momento, mai successo peraltro, in cui sferra un pugno a una guardia), che potete leggervi qui se avete voglia e delle quali si trovano estratti un po’ ovunque in rete (per esempio qui).

I Chicago 7 di Sorkin, nella figura di Eddie Redmayne, lanciano un messaggio di unità, un invito a riconciliare o ignorare le differenze in nome di qualcosa di più grande (nello specifico la guerra in Vietnam, ma volendo si può applicare a un’infinità di questioni più attuali). I veri Chicago 7 sfruttarono per l’ultima volta il palcoscenico di uno dei processi più mediatizzati della storia americana per mandare messaggi ben più taglienti.

Tom Hayden, per esempio, scelse di concentrarsi sulla libertà di parola, e di spiegare al governo che il loro piano di rendere i Chicago 7 un capro espiatorio a livello nazionale era fallito, perché il processo li aveva invece trasformati in martiri (“Every person who is born now and every person under thirty now feels an imperative to do the kind of things that we are doing”, "chiunque abbia meno di trent'anni sente un imperativo morale a fare quello che stiamo facendo noi").

processo ai Chicago 7 Eddie Redmayne

Rennie Davis, che nel film è una persona divisa tra il suo attivismo e la voglia di una relazione normale con la sua assolutamente non-attivista fidanzata, nella realtà disse: “When I come out of prison it will be to move next door to Tom Foran. I am going to be the boy next door to Tom Foran and the boy next door, the boy that could have been a judge, could have been a prosecutor, could have been a college professor, is going to move next door to organize his kids into the revolution. We are going to turn the sons and daughters of the ruling class in this country into Viet Cong” ("Quando uscirà di prigione mi trasferirò nella casa a fianco a quella di Tom Foran. Sarò il vicino di casa di Tom Foran, quel ragazzo che avrebbe potuto essere un giudice, un avvocato, un professore, e si trasferisce vicino a te per insegnare la rivoluzione ai tuoi figli. Trasformeremo in Viet Cong i figli e le figlie della classe dirigente di questo Paese").

Persino William Kunstler, l’avvocato difensore dei cinque che finì il processo con una condanna a cinque anni di prigione per aver chiamato il giudice “Mr Hoffman” invece di “Vostro Onore”, decise di concludere in gloria, citando le parole di Clarence Darrow nel suo Argument in defense of the Communists.

C’è un motivo per cui Aaron Sorkin ha deciso di ignorare tutto quanto e di costruire un finale su misura per la storia che aveva raccontato fin lì, una scorciatoia narrativa dall’innegabile impatto emotivo: il discorso di Redmayne è la miglior conclusione possibile per il film che la precede, ed è anche vero che alcuni dei temi più ampi che girano intorno al processo (la guerra, la crisi delle istituzioni, la violenza della polizia) escono intatti dalla revisione sorkiniana. Scegliendo però di non far parlare tutti i cinque, ma di riassumere la loro visione in un singolo discorso alterandone in questo modo il senso più profondo, Sorkin fa un enorme favore al suo film, ma un disservizio ai veri Chicago 7.

Bobby Seale

Un'addenda su Bobby Seale

C'è un motivo se finora non abbiamo citato il personaggio interpretato da Yahya Abdul-Mateen II, l'ottavo dei Chicago 7, che venne escluso dal processo dopo qualche mese: Bobby Seale non era in aula per i suoi legami con gli scontri di Chicago ma perché serviva al governo americano per mandare un messaggio a un certo attivismo e più in generale all'intera comunità nera d'America – lo stesso messaggio che molto più spesso viene mandato con un ginocchio sul collo o una pallottola nella schiena. Seale non sarebbe dovuto essere lì e non ci sarebbe stato se non fosse stato nero, e questo è un discorso molto più ampio che merita un pezzo a sé. Ci limitiamo a segnalare con un po' di dispiacere che Sorkin ha in qualche modo sminuito gli abusi subiti nel corso del processo da Seale, che passò tre giorni di fila in aula legato e imbavagliato, non qualche minuto come nel film.

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