Il più bel documentario del 2007

Non solo ha vinto l'Oscar, ma ha dimostrato come si possa realizzare un lavoro di indagine giornalistica seria, senza le manie di protagonismo di Michael Moore. Si tratta di...

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Rubrica a cura di ColinMckenzie

Taxi to the Dark Side, di cui vi avevamo già parlato qui. E' curioso vedere come, mentre in Italia ci dobbiamo sorbire le farneticanti 'rivelazioni' di Giulietto Chiesa e soci sugli aerei 'scomparsi' dell'11 settembre, in America si lavora in modo dettagliato per scoprire i veri crimini di guerra e soprattutto gli autentici responsabili di certe scelte disumane.

Il titolo mette assieme la vicenda di uno sfortunato tassista morto in una prigione afgana con una frase del vicepresidente Dick Cheney, pronto dopo i fatti dell'11 settembre ad arrivare al lato oscuro pur di sconfiggere i terroristi. Ma quali sono i meriti di questo documentario, che gli hanno anche permesso di vincere l'Oscar? Vediamoli. Una cosa che ho adorato è che il regista Alex Gibney, a differenza di quanto faceva Michael Moore in Fahrenheit 9/11, non fa finta di aver scoperto delle notizie, ma si affida a diversi giornalisti che si sono occupati di questi casi. Ecco quindi che chi ha coraggiosamente cercato la verità non viene trascurato e non ci si appropria impunemente del suo lavoro.

Un altro punto importante sono le foto e i filmati atroci a cui assistiamo. Nonostante siano di difficile sostenibilità, va detto che non si ha mai l'impressione di effettacci (purtroppo reali) volti ad emozionare facilmente, ma che tutto faccia parte di una descrizione accurata dell'inchiesta. Quello che è più importante, è la capacità di collegare ogni scelta dei vertici (descritti attraverso le dichiarazioni dei vari Bush, Cheney, Rumsfeld come superficiali, insensibili e talvolta anche sciocchi) con quello che fanno i soldati più umili, dimostrato anche dai problemi accaduti sia nelle prigioni afgane che in quelle irachene. Insomma, non delle semplici mele marce come fa molto comodo credere, ma il frutto di una politica che non si arresta di fronte a nulla pur di ottenere delle informazioni, anche se sono di dubbia attendibilità.

In effetti, questo è uno dei punti più importanti. E' evidente che praticamente in tutti i casi descritti la tortura fine a se stessa produce solo false confessioni, utilissime a far finta di aver ottenuto dei risultati, ma non certo efficaci per combattere la guerra al terrore. Tanto che, molto spesso (il 93% dei casi) i sospetti non sono stati arrestati dalle autorità angloamericane, ma da personale del luogo, quasi sempre interessato a mettere le mani su cospicue ricompense e pronto ad accusare persone completamente innocenti. Così, per coprire un errore di partenza, si continua a perseverare, mantenendo persone in carcere senza processo e possibilità di difendersi. Viene anche preso in giro il telefilm 24, pieno di situazioni in cui si torturano dei sospetti per fermare un attacco imminente, cosa che porta un avvocato a chiedere "ma quando mai negli ultimi 500 anni abbiamo potuto interrogare un criminale mentre la bomba non era ancora esplosa?".

Ciliegina sulla torta, un'ironia sarcastica pungente che colpisce con delle scritte fulminanti (dopo che un ufficiale a Guantanamo ha rivelato che non è morto nessuno in quella prigione, scopriamo che sono avvenuti diversi suicidi). E un finale incredibilmente commovente, affidato alle parole del padre del regista, che si occupava di interrogatori per la Marina. Insomma, di prodotti del genere, ne vorremmo vedere molti di più...
 

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