Il piano di Stefano Sollima per cambiare il cinema d’azione (partendo dall’Italia)

Stefano Sollima ha un piano: riportare il cinema d'azione in Italia e cambiare il modo in cui si fa all'estero. Ecco le sue mosse

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Adagio, il nuovo film di Stefano Sollima, è in sala.

Il cinema va a ondate: i generi ritornano di moda, trovano una nuova ispirazione, hanno picchi e si spengono per poi aspettare qualche anno e ritornare. Ci sono lavori che nascono e crescono insieme a loro. L’azione è uno di quelli. Richiede maestranze preparate, addetti agli effetti speciali, stunt-man. Un tempo in Italia eravamo bravissimi a fare tutto questo, i nostri polizieschi, i noir, le loro innovazioni stilistiche risuonavano nelle immagini di tutto il mondo. Tra gli anni ’60 e i ’70 c’era un Sollima, Sergio, a contribuire a questo filone di incredibile creatività tra lo spaghetti western e il thriller. Oggi c’è un Sollima, Stefano, che ha un piano ben preciso: ricostruire l’azione italiana e contemporaneamente imporsi nel blockbuster di scala globale. La missione di Stefano Sollima sembra pari allo sforzo di Sisifo nel sorreggere la pietra su un piano inclinato.

Invece l’immagine da usare per descrivere il suo cinema è opposta e appartiene al mondo del surf. Lui non è il surfista che cavalca l’onda, ovvero lo stato attuale del miglior cinema d’azione, lui è l’onda.

Un regista come un soldato: tanto allenamento e conoscenza del rischio

Quando i giovani aspiranti cineasti chiedono cosa si debba fare per avere successo nel settore la risposta che andrebbe data è quello che ha fatto Stefano Sollima: la gavetta. Imparare il mestiere, nonostante il cognome importante, un passo alla volta e con grande sforzo fisico e sacrificio. Una carriera a testa bassa partita con reportage girati come cameraman per NBC, CNN, CBS. Documentari dalle zone di guerra che l’hanno portato ad assorbire immagini e situazioni che spiegano come mai nel suo cinema ci sia quel crudo realismo che in pochi riescono a raggiungere. 

Al cinema americano ci si arriva, non lo si ha di diritto, anche se lo si vuole fare. Prima dirige Un posto al sole, poi La squadra. Entra nel sistema produttivo italiano, si ritaglia il suo spazio, un terreno di gioco da cui far partire il suo piano. La missione inizia come tutte le migliori azioni degli agenti segreti: senza che nessuno le veda arrivare. Nel 2008 arriva Romanzo criminale, che parte dal già bel film di Michele Placido, tratto dal romanzo di Giancarlo De Cataldo, per diventare una delle migliori serie italiane. Era l’epoca d’oro della TV, iniziata oltreoceano. Tanti autori si stavano buttando in questo nuovo mare. L’onda, come dicevamo, è stata invece portata in Italia da Stefano Sollima e resa ancora più alta, bella, esportabile con Gomorra

La missione di Stefano Sollima non ha confini di formato

Il piano di Sollima non ha confini: passa agilmente dalla serialità al cinema. Difficile pensare che un film strepitoso come ACAB sia ancora gavetta. Non lo è. Però un bravo regista impara sempre dai suoi set. In quel film c’è una densità di comparse che gli è servita più in là, c’è una tensione e una cattiveria che sembrano appartenere a un altro cinema. 

Arrivato Suburra, il cinema italiano si è accorto che questo “corpo estraneo" stava facendo sul serio. Non si torna indietro. Ancora Giancarlo De Cataldo, ancora un soggetto criminale, questa volta ammantato da un’aura apocalittica pazzesca. La capacità di trovare immagini cinematografiche non riguarda solo la ripresa della tensione, asciutta e rigorosa, ma anche il significato del film. Favino che urina nudo da un balcone di un hotel della Roma dabbene è un momento che racconta il nostro paese al pari di quanto fatto da Sorrentino. 

È grazie a questa capacità di prendere un genere considerato “basso” ed elevarlo al massimo delle sue capacità espressive che Stefano Sollima ha convinto tutti: produttori e pubblico. Così se n’è andato in America da autore.

Un romano in America

Stefano Sollima ci corregge durante l’intervista per la presentazione di Adagio, il suo nuovo film da poco in sala. Non ha mai lasciato Roma, semplicemente ha iniziato a girare film altrove, ma la base è sempre stata la stessa. Lui ha riacceso i motori, ora la nostra industria - pur lentamente - ha iniziato a macinare chilometri. Opere come Il primo re, L’ultima notte di amore, ma anche Lo chiamavano Jeeg Robot e lo stesso Adagio (che segna il ritorno di solida a una produzione italiana dopo 10 anni) sono nati grazie al compimento della prima missione. L'attivazione di un sistema di competenze che permette di riportare una cultura artigianale, di gente che sappia fare i botti e le botte. Questo significa, su una scala più grande, anche diventare capaci di attrarre produzione estere a cui dare, ma anche da cui imparare, impostando un chiaro circolo virtuoso. 

In America invece Sollima ha eseguito la seconda parte del suo piano. Se in Italia ha portato una sensibilità internazionale, negli Stati Uniti ha proposto un modo di girare l’azione diverso. Se non italiano, sicuramente più europeo. Scarno, secco, rigoroso, il suo cinema si confronta a testa alta e con intelligenza con autori come Denis Villeneuve (ve ne abbiamo parlato qui in dettaglio). Soldado, arrivato dopo Sicario, era un seguito complicato dato il successo del precedente film. Affiancato da Taylor Sheridan, Sollima ha fatto una cosa che nei blockbuster non sempre viene recepita bene. Era però la mossa più intelligente di fronte a un confronto impossibile. Ha dato al secondo film una nuova identità, ha mostrato la sua mano, evitando di essere un mero esecutore di un’operazione strettamente commerciale. Ha fatto le cose diversamente.

Di criminale, oltre al contenuto dei suoi film, c’è la sottovalutazione del buon Senza rimorso, in cui Sollima dice la sua rispetto al mondo del tecno spionaggio ideato da Tom Clancy. L’impressione è che la colpa del film sia stata soprattutto quella di aver fatto un cinema di genere puro. È stato scambiato per poco raffinato. Noi diremmo genuino.

Un regista che non va Adagio

Non tutto è perfetto nella filmografia di Stefano Sollima, ci sono film più riusciti (Suburra) e altre cose meno a fuoco (Suburra la serie). In questo caso però importa poco il singolo titolo. Per capire il suo cinema bisogna metterli tutti in fila e osservare la strada che hanno tracciato.

Questo Adagio è il finale di un’ideale "trilogia della Roma criminale”. Prova a tirare legami tra le opere come se fossero parte di un franchise. Questa epica della malavita, che accompagna la storia di una nazione raccontandola con una buona dose di realismo simbolico è solo l’ennesimo atto di coraggio di un regista con un’idea ben precisa di cinema e con ben chiare le mosse da fare per realizzarla.

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