Il Mostro di St Pauli: tutta la filmografia di Fatih Akin puntava a questo film

Guardare l'abisso che può spalancarsi davanti ad ognuno o che esiste in un bar di una via qualsiasi, il cinema di Fatih Akin e Il Mostro di St Pauli

Critico e giornalista cinematografico


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In ogni essere umano esiste l’abisso, ognuno può trovarsi ad un passo dall’autodistruzione. C’è questo nella filmografia di Fatih Akin, l’irresistibile attrazione verso il peggio, verso il gorgo senza salvezza di depressione, fallimento, difficoltà, disperazione e odio, sempre affiancato dall’ultima grande occasione per tornare in pista, per vedere la giustizia trionfare o dare un senso alla propria vita. La si colga o meno.

Questo cineasta turco-tedesco con una passione per chi è ai margini ha raccontato di amanti perduti, famiglie criminali, viaggi estremi per ritrovare i propri cari e situazioni senza via di scampo, sempre cercando di capire qual è il punto, il momento, l’attimo in cui è ancora possibile tornare indietro, in cui l’universo o gli altri concedono una possibilità di salvezza e cosa serve per coglierla o cosa accade se non lo si fa. L’importante è guardare cosa ognuno di noi rischia e tremare all’idea di non riuscire ad evitarlo.

Il Mostro di St Pauli e la filmografia di Akin

In tutto Il Mostro Di St Pauli, che racconta l’iter, le abitudini e l’immaginaria vita interiore di uno dei serial killer più efferati della storia tedesca, quest’idea è portata a sublimazione. Fritz vive in una soffitta terribile, un ambiente di raro squallore, puzza e sporcizia, ricreato fedelmente rispetto alle foto di cronaca della residenza del vero serial killer cui la storia è ispirata, puntando sulla capacità di creare repulsione nello spettatore (c’è un sound design incredibile). Tutto il film è un gigantesco bubbone pieno di pus rispetto al quale la reazione più comune è voler prendere le distanze. Distanze dall’immensa tristezza dell’umanità incontrata dal mostro, l’immenso schifo delle sue abitudini, l’immensa amarezza delle pratiche sessuali, delle umiliazioni continue e l’indicibile orrore del suo corpo devastato completamente dall’alcol e dalla scarsa igiene. Rispetto a qualsiasi altro film sul tema Fatih Akin questa volta punta tutto sul rendere la realtà respingente e disgustosa come mai.

Per questo il film sembra qualcosa di strano e unico nella sua filmografia, ma per questo è anche qualcosa di incredibilmente vicino al mondo inizialmente desiderabile e poi pieno di sofferenza di La Sposa Turca, a quello divertente ma in fondo solitario e potenzialmente fallimentare della banda di Soul Kitchen (che era una commedia), a quello colmo di ingiustizia di Oltre Il Buio o quello dei perseguito di Il Padre (per non dire quello vero di Polluting Paradise). Certo non era mai andato così a fondo, non aveva mai immerso le mani così tanto in ciò che è il primo a temere, il primo a schifare e il primo a respingere.

Quando Sibel e Cahit in La Sposa Turca sono separati dopo una storia d’amore fasulla diventata più vera del vero, scendono sempre più in basso, finiscono ai livelli più infimi che conoscono in cerca di violenza e autodistruzione, potevano essere felici insieme ma sono protagonisti di un melodramma e quello è il loro destino. Quando in Soul Kitchen incontriamo il protagonista con il suo ristorantaccio, i debiti, la schiena a pezzi e la fidanzata che lo lascia (e l’appartamento in fiamme) siamo testimoni del momento in cui vede una possibilità di riscatto e nel coglierla il film si conferma una commedia. Così è anche per Diane Kruger in Oltre Il Buio, protagonista di un legal thriller, che nelle aule di tribunale cerca riscatto. L’esito lo determina il genere del film, ma lo snodo è sempre il momento in cui salvarsi.

Accade anche in Il Mostro di St Pauli. Quando incontriamo Fritz ad inizio film è già all’ultimo gradino possibile dell’umanità e verso metà film, dopo aver fatto di tutto, avrà una clamorosa possibilità di riscatto, un momento in cui tutto sembra girare per il verso giusto prima di precipitare di nuovo nella realtà dei fatti, dei casi di cronaca e nella spirale di violenza e autodistruzione.

È davvero facile di fronte a questo film voler prendere le distanze, tanto quanto nel resto della sua filmografia si ha voglia di stare con i personaggi, averli come amici. Tuttavia la maniera in cui Fatih Akin dà dignità ad ogni singolo avventore del bar, che è il centro nevralgico della storia e il bacino di pesca del serial killer, è ciò che lo rende una persona migliore di noi che vorremmo scappare dalla sala e dimenticare che quelle cose sono esistite.

Anche gli esseri più orribili, umanamente infimi e politicamente discutibili che popolano il luogo hanno la dignità dell’umanità, sono truccati, posizionati e scritti per rappresentare il peggio della razza umana, ma guardati con un’umanità e una compassione che solo un cineasta dall’umanità gigantesca come Akin può avere.

Stare accanto, come un amico, al suo ristoratore sfortunato; stare vicino alla sua sposa turca quando nei vicoli di Istanbul va in cerca di botte e dolore; stare ad un passo dalla protagonista in cerca di giusta di Oltre Il Buio o insieme al padre in cerca dei suoi cari anche nei momenti più disperati, anche tutto è perduto, è la caratteristica vera che fa la differenza nei film di Akin, come se non tenesse a sé, al proprio statuto, alla giusta distanza e al proprio essere terzo rispetto alla storia, ma la sposasse in pieno negli alti e nei bassi, in salute in malattia, in ricchezza e povertà. Anzi soprattutto quando si va in basso.

E in basso come Fritz, il mostro di St Pauli, non ci va davvero nessuno.

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