Il mio vicino Totoro è delizioso e meraviglioso

Il mio vicino Totoro è nato perché Miyazaki voleva fare “un film delizioso e meraviglioso”, e ha fatto esattamente quello

Condividi

Il mio vicino Totoro torna al cinema dal 10 al 16 agosto grazie a Lucky Red

Quest’estate è stata monopolizzata dal Barbenheimer e dai discorsi critici sui film di Greta Gerwig e Christopher Nolan, ma anche sul loro valore memetico. Nel 1988 lo Studio Ghibli fece un’operazione simile, anche se nessuno se la ricorda: portò in sala contemporaneamente Il mio vicino Totoro e Una tomba per le lucciole (… il Totomba?), cioè due facce della stessa medaglia, entrambi film post-bellici, ma uno per bambini e l’altro per adulti, uno “delizioso e meraviglioso” come da definizione dello stesso Miyazaki e uno crudo, realistico e devastante. Il secondo, diretto da Isao Takahata, è passato alla storia come uno dei film animati più deprimenti di sempre. Il mio vicino Totoro, invece, è diventato così famoso da essere stato elevato a simbolo dell’intero Studio Ghibli, sul cui sito ufficiale campeggia la sagoma dello spirito della foresta.

Forse è inutile dirlo ma la sua fama è più che meritata. Il mio vicino Totoro è un film di una semplicità disarmante, talmente concentrato sulla magia dei dettagli da disinteressarsi completamente di avere una trama strutturata o un ritmo travolgente. È il più lento e rarefatto dei film di Miyazaki, e quello che lui stesso ha più volte difeso da sovrainterpretazioni e letture doppie o triple: ha per esempio più volte dichiarato, come si legge in questo interessantissimo saggio sul film, che Il mio vicino Totoro non parla di shintoismo né in realtà di alcuna religione – racconta solo la sua storia, che è, in sostanza, quella di due sorelle che cambiano casa.

Lo suggerisce già anche il titolo: Il mio vicino Totoro è la storia di un trasloco. Non scopriamo mai da dove provenga di preciso la famiglia di Satsuki e Mei, se non genericamente da “la città”. Sappiamo però che si stanno lasciando alle spalle l’antropizzazione (e con ogni probabilità anche le più evidenti ferite lasciate dall’appena terminata Seconda guerra mondiale) per trasferirsi in un satoyama, un termine che in origine indica la zona di confine tra i piedi delle montagne e le terre coltivabili ma che con il tempo ha assunto il significato più generico di “zona rurale” – ed è quindi un mix di prati, campi coltivati, foreste e risaie. Un paradiso agreste che proprio negli anni Ottanta venne riscoperto dal popolo giapponese in uno sforzo di conservazione culminato con la nascita, nel 2009, della Satoyama Initiative.

Il mio vicino Totoro è quindi un film che parla (anche) di nostalgia nella sua forma più pura, e soprattutto della voglia di tornare a una vita semplice e a diretto contatto con la natura. Che Miyazaki dipinge con gli strumenti dell’utopia: ci sono pochissime frizioni in Totoro, la maggior parte delle quali provengono “da fuori” – la malattia della mamma su tutte, costante ricordo che la cruda realtà è sempre in agguato anche in un luogo magico come la campagna giapponese. Ma per il resto la storia dell’amicizia tra le due sorelle e Totoro, lo spirito dei boschi, è lineare e senza ostacoli, e raccontata per il puro gusto di raccontarla. È un film senza un villain, senza una vera crisi da risolvere, che dedica gran parte del suo tempo semplicemente a mostrarci cose belle.

L’impressione è che Miyazaki non voglia raccontare il Giappone rurale post-bellico, ma un mondo alternativo nel quale il Giappone rurale post-bellico è abitato da creature magiche che sono visibili solo agli occhi puri dei bambini (c’è chi a partire da questo ha avanzato la teoria che in realtà Totoro sia lo spirito della morte e che il film sia molto più cupo di quello che sembri a uno sguardo superficiale, ma è una suggestione già smentita seccamente dallo stesso Studio Ghibli). È un film di meraviglie gratuite, di cose che succedono e che è semplicemente bello che succedano.

Volendo, ovviamente, si può leggere molto altro in Il mio vicino Totoro. Il classico ambientalismo avanti sui tempi di Miyazaki, uno che ha dedicato tutta la sua carriera a dirci quelle cose che negli ultimi anni ha cominciato a ripeterci persino il Papa. La breve ma incisiva parabola di crescita di Satsuki, che in quanto maggiore galleggia per tutto il film a metà tra il mondo infantile della sorella Mei e quello adulto dei suoi genitori. L’utilizzo dell’immaginario shintoista per parlare di qualcosa di diverso dalla religione. È un film di Hayao Miyazaki, e per quanto possa essere semplice non è mai banale.

Ma forse il maestro sarebbe il primo a criticarci per questa nostra corsa alla seconda lettura e all’interpretazione geniale. Il mio vicino Totoro è un film che nasce con l’esplicito intento di far stare bene chi lo guarda, e tanto dovrebbe bastare. Il resto è un di più, del quale non ci lamenteremo ma del quale il film non ha realmente bisogno: è già “delizioso e magnifico” così.

Continua a leggere su BadTaste