Il miglio verde e l’altro Stephen King
Il miglio verde è l’apice di un breve periodo durante il quale il cinema si è accorto che King non scrive solo horror
LEGGI: Lisey’s Story: Stephen King parla del suo legame con la storia in una featurette della serie
LEGGI: L’incendiaria: Stephen King e il suo augurio al cast e alla troupe in vista delle riprese
Il miglio verde e Frank Darabont
Il miglio verde è un film di Frank Darabont: non è cosa nota, ma il cognome del regista di origine ungherese si può tradurre in “il più bravo di tutti ad adattare Stephen King”. Non è vero – secondo Google Translate, “Darabont” significa “pezzo” – ma potrebbe esserlo: il tre volte candidato all’Oscar (con zero vittorie, ahilui e ahinoi) ha diretto appena quattro film nella sua carriera, tre dei quali sono tratti da una qualche opera del Re, che diventano quattro se contiamo anche il suo corto d’esordio The Woman in the Room. Non è solo questione di quantità: Le ali della libertà, Il miglio verde e The Mist sono tre film che in un modo o nell’altro vengono sempre citati quando bisogna indicare le migliori pellicole tratte dai romanzi di King. E non solo per la loro qualità intrinseca: gli altri grandi del mestiere che si sono cimentati con successo nell’impresa (da Kubrick a De Palma a Carpenter) hanno sempre messo molto del loro stile nei vari Shining, Carrie e Christine, e in certi casi hanno piegato la fonte originale alle loro esigenze e alla loro visione – non abbiamo certo bisogno di ricordarvelo, ma c’è un motivo se King odia Shining e ancora oggi non ha del tutto accettato la versione di Kubrick.
Darabont, invece, ha sempre dimostrato di saper cogliere l’essenza delle opere a cui si ispirava e di metterla davanti a tutto il resto, anche quando per esigenze tecniche ha dovuto cambiare, tagliare, riscrivere o modificare qualche dettaglio. The Mist, per esempio, è un racconto che parla di mostri orrendi e della fine del mondo, ma è soprattutto una storia dove l’orrore scaturisce dall’assenza di speranza, dalla sensazione di totale solitudine che ti assale se la civiltà smette di esistere e il mondo ritorna un luogo selvatico e inospitale; e il finale – molto diverso da quello del racconto, e contestatissimo da una parte del fandom – riflette questa considerazione e la adatta a un altro medium, prettamente visivo (la stessa conclusione su carta non avrebbe mai potuto funzionare). Stesso discorso si può fare per Le ali della libertà, l’esordio alla regia di Frank Darabont e il film che ci permette di fare un passo indietro e tornare a parlare di quel quasi-decennio conclusosi in gloria con Il miglio verde.
Il miglio verde e Le ali della libertà
Le ali della libertà è un film che arrivò quasi dal nulla. Tratto da uno dei quattro romanzi brevi che compongono la raccolta Stagioni diverse, uscì sulla scorta di una lunga di adattamenti più o meno di successo di opere di King degli anni precedenti, da Pet Sematary a Misery passando per Il tagliaerbe e Cose preziose. In realtà un antenato ce l’aveva già: Stand By Me di Rob Reiner, che nel 1986 portò per la prima volta un King diverso al cinema. Ma quel film venne visto più come una creatura del suo regista che come la dimostrazione della varietà creativa del Re, e venne in un certo senso catalogato come “eccezione”. Eppure The Body, il racconto da cui era tratto, proveniva anch’esso da Stagioni diverse: ci vorranno otto anni perché qualcuno – Darabont, appunto – si renda conto che quella raccolta conteneva abbastanza spunti per togliere definitivamente di dosso a King l’etichetta di “quello che scrive solo horror”.
Scegliere Le ali della libertà in questo senso fu un gesto estremo: dei quattro contenuti nel libro, il racconto originale (Rita Hayworth and the Shawshank Redepmtion) è quello che più di tutti abbandona ogni tentazione orrorifica o soprannaturale per dedicarsi esclusivamente a uno studio sui personaggi, e a raccontare una storia di amicizia e di riciclaggio di denaro ambientata in prigione. Darabont prende il materiale e lo trasforma in uno dei più grandi prison movie di sempre, un capolavoro da sette nomination all’Oscar (e zero statuette) per il quale ancora oggi Tim Robbins e Morgan Freeman vengono fermati per strada. E nel farlo lancia un messaggio al resto dell’America: “guardate che nei libri di questo signore” dice “c’è anche molto altro, non solo mostri e incubi “. Una verità che, peraltro, è ben nota a chi ha letto King con attenzione, e che già veniva fuori dai suoi romanzi più famosi e famosamente horror come IT o L’ombra dello scorpione.
L'altro Stephen King
Cosa sia questo “altro” non è sempre facilissimo da indicare. L’anno dopo Le ali della libertà, per esempio, uscì l’adattamento di Dolores Claiborne, che è stato definito alternativamente “un thriller”, “un horror”, “un melodramma” o “un film femminista” ma che, come il primo film di Darabont, non contiene alcun elemento soprannaturale, a dimostrazione che si stava cominciando finalmente a scavare anche nel resto della bibliografia di King. Stesso discorso si può fare per il dimenticato L’allievo (1998), dove il male non è un’entità disincarnata e di fantasia ma un ex criminale nazista. Come dicevamo, non è facile individuare il filo rosso che collega queste opere: sicuramente c’è il fatto che non sono storie come quelle che tradizionalmente si associavano al nome di Stephen King, e poi l’altra facile considerazione che si tratta pur sempre di film che parlano del Male, solo dandogli altri volti, più familiari e concreti.
E arriviamo quindi al film che ci interessa di più: Il miglio verde è una prosecuzione di questo discorso ma è contemporaneamente uno scarto, una piccola ma decisiva deviazione che riportò un po’ di rassicurante Stephen King soprannaturale all’interno delle sue storie improvvisamente così concrete (e brutali). Tratto questa volta da un romanzo e non da un racconto, Il miglio verde è una sorta di versione fantasy di Le ali della libertà, un racconto epico ambientato in prigione che si srotola per anni e anni e coinvolge un cast corale tipicamente kinghiano, e al contempo una favola spirituale che pesca dal realismo magico di Marquez e Borges e lo americanizza – nell’accezione migliore del termine, cioè lo adatta a un contesto diverso e tipicamente statunitensi. È la storia (raccontata come un lungo flashback) di un ufficiale giudizario e della sua amicizia con un tizio accusato del duplice stupro e omicidio di due bambine, e di una lunga e faticosa ricerca della verità sull’accaduto; ma è anche la storia di un gigante con i superpoteri, che potrebbero essergli stati dati da Dio in persona.
Il magico realismo kinghiano
È, in altre parole, una somma delle due anime di King portate al cinema fin lì: quella legata al soprannaturale, al fantasy, all’horror e alla magia del quotidiano, e quella psicologica, sociologica, anche politica che, per esempio, lo portò a prendere la storia di una pandemia e a trasformarla in un trattato filosofico sulla vita dopo la fine del mondo. È una fusione perfetta; nel mondo di Il miglio verde succedono cose inspiegabili, ferite curate con la sola imposizione della mano, topi che risorgono, gente che vomita sciami di insetti, ma succedono anche cose molto più spiegabili, concrete e quotidiane: l’uomo nero viene accusato di omicidio anche se è innocente perché è nero, il prigioniero condannato alla sedia elettrica subisce ogni forma di abuso e tortura dai suoi carcerieri perché tanto non è una persona ma un morto che cammina...
L’aspetto più curioso del film è forse il fatto che tutto ciò che finora abbiamo catalogato genericamente come “soprannaturale” è in realtà definito meglio utilizzando il termine “spirituale”. Stephen King crede in Dio; magari non crede nella chiesa e nella religione organizzata, e magari il suo Dio è diverso dal Dio standard dei cristiani, ma è convinto che anche nel nostro mondo di tutti i giorni ci sia “qualcosa”: qualcosa d’altro, qualcosa di più, qualcosa di inconoscibile se non attraverso gli effetti che ha sulla nostra vita. King ha sempre parlato del Male, ma Il miglio verde è una delle sue prime opere nella quale parla anche del Bene, sempre con la maiuscola, un assoluto e non un semplice comportamento. E Darabont lo capisce, e mette in scena una storia che sembra ambientata in una prigione, ma idealmente si svolge invece in una chiesa, e il vero mistero è scoprire chi si stia confessando e chi sia invece il confessore. Fate caso per esempio all’uso della luce, o al fatto che le finestre del penitenziario di Cold Mountain assomigliano a quelle di una cattedrale: Darabont (che oltre a essere regista è anche autore unico della sceneggiatura) ha capito che nel romanzo di King si parla, per farla breve, di Dio e dell’esistenza di un Bene superiore, e ha spalmato questa considerazione su tutta la messa in scena, trasmettendola anche agli attori e indirizzando le loro interpretazioni.
Lui ha visto la luce!
In questo senso Il miglio verde è superiore anche a Le ali della libertà: perché contiene tutto Stephen King, ne abbraccia tutte le anime e le armonizza in una storia dove anche i momenti su carta più assurdi diventano invece sequenze dal fortissimo impatto emotivo – perché nel mondo che Darabont sta raccontando non sono più assurdi ma normali, quotidiani. Certo, le gesta di John Coffey vengono salutate come “miracoli”, ma il punto è proprio questo: per Paul Edgecombe i miracoli esistono, sono un pezzo della realtà, non una stranezza inspiegabile. Realismo magico, appunto, virato all’americana, senza sottigliezze o ambiguità: il potere di guarire di Coffey è letteralmente il potere di guarire, non un qualche trucchetto psicosomatico, e l’eccesso di emozioni che lo sovrasta si manifesta letteralmente come un vomito di insetti (è un miracolo quanto spesso Il miglio verde riesca nell’impresa di non scadere nel ridicolo).
È un peccato quindi che, oltre a essere un apice, il film di Darabont si sia anche dimostrato una sorta di vicolo cieco: due anni dopo Scott Hicks riproverà a riprendere il discorso con Cuori in Atlantide, al quale però manca la forza dirompente di Il miglio verde, sostituita con troppe lacrime facili e telecomandate, e dopo il 2001 gli adattamenti di King ritornano a spostarsi in zone più confortevoli e sicure. Nei prossimi anni ci aspettano, se tutto va come deve, una quindicina almeno di nuovi film tratti da opere del Re: nessuno di questi, purtroppo, assomiglia anche solo vagamente a Il miglio verde o Le ali della libertà, ma per lo meno ci toglieremo lo sfizio di vedere adattato anche l’ultimo dei quattro racconti di Stagioni diverse, Il metodo di respirazione.
Trovate Il Miglio Verde, insieme a moltissimi altri film, in streaming su NOW!