Il grande bluff

Con Pulp Fiction, Quentin Tarantino ci aveva promesso una rivoluzione cinematografica senza precedenti. Dodici anni dopo, la carriera del regista è a un punto morto ed è impossibile nascondere la delusione…

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Quando, a distanza di più di dieci anni, di un film ti ricordi perfettamente l’orario e il luogo in cui l’hai visto, l’amico che era con te e la reazione che avete avuto dopo la proiezione, significa che si trattava di qualcosa di veramente importante. In effetti, la mia prima visione di Pulp Fiction può tranquillamente essere paragonata ad un’epifania, una folgorazione sulla via di Damasco o qualsiasi altra metafora religiosa vi venga in mente. Per una generazione cresciuta a b-movie ed Mtv, Pulp Fiction era la perfezione: uno stile classico ed elegante (che mostrava grande rispetto per gli autori del passato), ma con una trama, dei personaggi e dei dialoghi assolutamente anticonvenzionali.
Come non rimanere ammirati? Come non pensare che Quentin Tarantino fosse il più grande genio dell’universo e che avrebbe cambiato la storia del cinema? Purtroppo, la realtà si è rivelata ben diversa e Pulp Fiction è rimasto l’unico film di Quentin Tarantino veramente originale.

Sì, lo so cosa state per dire, anche i suoi più acerrimi critici concordano sul fatto che il suo esordio, Le iene, sia un film straordinario. Beh, potrei essere d’accordo per l’ottimo cast, i dialoghi folgoranti e un ottimo utilizzo del minuscolo budget. Ma purtroppo la storia è una scopiazzatura (soprattutto nell’ultima mezz’ora) di City On Fire di Ringo Lam, una pellicola del 1987 con Chow Yun-Fat. Il plagio è assolutamente clamoroso, ben superiore alla tesi di chi sostiene (forse perché non ha visto l’originale?) che riguardi soltanto un punto centrale della trama. E la scusa di Tarantino (“io rubo da tutti i film che ho visto”) sembra più un manifesto del filesharing, piuttosto che una spiegazione adeguata all’evento (chissà perché, non parlava di questo film prima di essere scoperto).

Comunque sia, dopo l’enorme successo di Pulp Fiction (sicuramente uno dei film degli ultimi trent’anni che hanno più influenzato il mondo del cinema), qualcosa deve essere scattato nella testa di Tarantino. L’impressione è stata quella di vedere un romanziere che, dopo un esordio folgorante acclamato dalla critica, ha una grande paura di fallire e di non essere all’altezza delle aspettative.
Ma Tarantino attraversa questa fase in maniera particolare. Invece di limitarsi a curare i suoi film, si svende in maniera assurda ad altri registi (quasi tutti insignificanti) e/o accetta che progetti di altri vengano spacciati per suoi.
E il bello è che la critica continua a sbavare. Se Tarantino enuncia una singolare tesi su Top Gun (peraltro non sua, ma di Roger Avary, cosceneggiatore di Pulp Fiction) ne Il tuo amico nel mio letto, tutti ne parlano. Se partecipa ad una pellicola insignificante come Mister Destiny (distribuita in Italia solo per la sua presenza), sembra che questa debba essere candidata all’Oscar.

Ma l’anno dopo arriva Four Rooms. E qui, anche la critica più benevola inizia a togliersi le fette di prosciutto dagli occhi. L’episodio di Robert Rodriguez è il più divertente, mentre quelli di Allison Anders e Alexandre Rockwell sono decisamente insignificanti. Ma il lavoro di Tarantino è il più preoccupante ed è l’emblema di tutta la sua carriera futura, fatta quasi esclusivamente di citazioni. Infatti, non si tratta di altro che di una riflessione (si fa per dire) su un celebre episodio della serie Alfred Hitchcok presenta, che Tarantino allunga a dismisura, dando l’impressione di raccontare una barzelletta di mezz’ora (per chi volesse saperne di più sulla lavorazione di questo film – e in generale sul mondo indipendente rappresentato da questi quattro registi - consiglio il libro di Peter Biskind Down and Dirty Pictures).
Ma l’esempio più eclatante di questa confusione è Dal tramonto all’alba. Iniziando un trend che purtroppo verrà ripetuto in seguito (con pellicole come Hostel e Hero), il suo nome (magari con la formula “Quentin Tarantino presenta”) è in testa ai cartelloni, come se fosse lui il regista e non Robert Rodriguez. Il gioco è semplice: facciamo pensare al pubblico che si tratta del nuovo prodotto del genio e raddoppiamo (a dir poco) gli incassi. Peccato che così si truffano gli spettatori, che ad un certo punto si stancano. Anche perché Dal tramonto all’alba, in precario equlibrio tra film di rapina e horror movie, non funziona benissimo (spacciarlo come un omaggio a Lucio Fulci e utilizzare una tonnellata di effetti digitali, da questo punto di vista, è una bestemmia).

L’altro suo grande problema è la passione ostinata per la recitazione. Purtroppo per lui, la critica non sembra essere d’accordo e lo massacra in varie occasioni (in particolare al suo esordio teatrale a Broadway nel 1998). Insomma, Tarantino dà l’impressione di essere un po’ come Michael Jordan: invece di dedicarsi al campo in cui eccelle (regia/basket), cerca di sfondare in altri settori (recitazione/baseball), come se essere il re in quell’ambito fosse cosa da poco.
Ma ormai Tarantino sembra interessato solo a citare altri film e a discuterne nei suoi progetti, non a costruire una storia veramente originale. Il problema è che, come rivelano i suoi amici, ormai molto spesso Tarantino non si limita ai film di serie Z (che a questo punto ha sicuramente visto tutti, magari più volte), ma segue appassionatamente anche le telenovelas.

E quando, nel 1997, arriva finalmente il suo nuovo lungometraggio, Jackie Brown, tutti sono pronti ad urlare al fallimento (sia in senso artistico che commerciale, nonostante il film recuperi ampiamente il budget). Ma, anche se la pellicola non è certo orrenda, in effetti la scelta di Pam Grier come protagonista è assolutamente insoddisfacente, così come è eccessivo l’entusiasmo per il rinato Robert Forster (il fatto che entrambi poi non abbiano più fatto nulla di importante la dice lunga). E, come è capitato spesso a Tarantino negli ultimi dieci anni, l’impressione è che ci sia molto più fumo che arrosto.

Idea confermata dai due episodi di Kill Bill. Dopo aver saccheggiato tutto il saccheggiabile (da La sposa in nero di Truffaut ai film di arti marziali asiatici), Tarantino copia anche se stesso in diversi momenti. Penso a tutto quello che avviene a Uma Thurman dopo il risveglio dal coma, praticamente uguale a quello che fa Bruce Willis dopo che si è liberato in Pulp Fiction. O al discorso sempre più nevrastenico di Lucy Liu, impostato in maniera identica a quello di Amanda Plummer nella caffetteria di Pulp Fiction.
Per non parlare di un aumento spaventoso del budget (anche se la pellicola ha una sola scena veramente impegnativa), che renderà certe sue dichiarazioni a proposito di James Bond (di cui avrebbe voluto fare un episodio a basso costo) ancora più inquietanti. Difficile capire cosa ci sia da acclamare in un b-movie allungato all’infinito (un’ora e mezzo sarebbe stata perfetta, quattro sono un segno di egocentrismo senza limiti) e che non ha un decimo dell’originalità di qualunque pellicola delirante di Takashi Miike.

Ma ormai Tarantino sembra diventato un grande imbonitore più che un regista, un po’ come capitato a Orson Welles (che però continuava a fare film notevoli anche in situazioni produttive difficili). Così come il regista di Quarto potere, anche Tarantino annuncia progetti a rotta di collo, per poi rinunciarvi dopo pochi mesi. E pensare che un tempo voleva essere come Fassbinder, che realizzava 4-5 lavori all’anno. Così, riprende l’idea di sotterrare Uma in Kill Bill (già di per sé non proprio originalissima) e la utilizza in un episodio di CSI che batte diversi record d’ascolto. E sì, perché una cosa importante da dire su Tarantino è che continua ad avere successo, non importa quanto ricicli idee degli altri (o le sue). Mentre uno sceneggiatore come Shane Black, che tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta aveva anticipato molti dei temi tarantiniani (violenza mostrata in maniera ironica, personaggi strampalati), vede un gioiellino come il recente Kiss Kiss Bang Bang passare pressoché inosservato (certo, ci fosse stato sui cartelloni un ‘Quentin Tarantino presenta’, sarebbe stata tutta un’altra storia).

Anche i progetti futuri di Tarantino non fanno ben sperare. Dirigere uno dei due episodi di Grindhouse sembra il massimo che possa fare. E se credete veramente che un film complesso come Inglorious Bastards possa essere realizzato in tempi brevi, siete degli ingenui.

Era questa la rivoluzione che era stata annunciata? Purtroppo, Tarantino ci aveva promesso la luna, ma non ci ha dato neanche le stelle…

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