Il Gladiatore, 20 anni fa, creava il mito di Russell Crowe condizionandolo per sempre

Lo scontro tra il metodo Ridley Scott e il nervosismo di Russell Crowe e l'energia incredibile che è stata trasferita in Il Gladiatore

Critico e giornalista cinematografico


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La cosa incredibile di Il Gladiatore, e adesso che sono passati 20 anni posso dirlo con sicurezza, è che da qualche parte nel mondo, oggi, stasera, quel film sarà mandato in onda in prima serata. E sono passati vent’anni dalla sua uscita. Non tutti i film lasciano un segno simile”.

È Russell Crowe a dirlo, e fa bene perché è “quasi” vero. L’impatto di Il Gladiatore anche 20 anni dopo (arrivà nei cinema italiani il 19 maggio 2000) è incalcolabile. Ha rimesso in circolo un genere da solo, portando ad innumerevoli serie, film ed esperimenti simili per i 10 anni successivi, ha lanciato definitivamente due attori (Crowe e Joaquin Phoenix) ne ha ucciso uno (Oliver Reed) e segnato uno dei punti più alti della carriera di Ridley Scott, uno che ha Blade Runner e Alien nel suo portfolio.

Nonostante una drammaturgia molto più che elementare, Il Gladiatore sopravvive al tempo per la tipica capacità che hanno i film di Ridley Scott di vivere di immagini prima che di concetti o parole. Scott non solo pensa per immagini e si disinteressa spesso delle battute, ma si fa guidare nelle sue scelte dalle immagini. È noto infatti che a convincerlo a fare un film sull’antica Roma sia stata la visione en passant di un dipinto. È una pratica che Scott ha spesso spiegato essere la maniera in cui prepara i film. È un diplomato all’istituto di belle arti, e quando gli altri leggono lui invece sfoglia cataloghi di immagini, guarda fotografie, studia dipinti. Il suo stile è tutto fondato sull’immergersi in altre immagini: “Mi basta guardarle anche una volta sola, ho una memoria molto potente” spiegò nel presentare Tutti i soldi del mondo.

Così nasce Il Gladiatore, da Pollice Verso di Jean-Léon Gérôme. Da lì arriva la sceneggiatura di David Franzoni, che molti tra coinvolti nell’impresa definiscono elementare ed espositiva, nel senso che faceva dire ai personaggi tutto quel che provano e accade. Insomma amatoriale. Ma quello script adattava il romanzo Quelli che stanno per morire, la cui storia è sufficientemente convincente per Scott, perché ha un grande villain ucciso nell’arena (un fatto “quasi” vero) e affonda altrove, sembra la trama di un film di Kung Fu. C’è un uomo, un guerriero, allontanato dalle sue proprietà, la cui famiglia è stata massacrata e che adesso è costretto a girare il mondo e combattere anche contro la sua volontà per compiere la propria vendetta. Cinema di genere mascherato da altro cinema di genere in una confezione da Oscar (che matematicamente sono arrivati).

La sceneggiatura di Franzoni dunque è stata molto riscritta, cambiata e ampliata da John Logan e William Nicholson, ma non bastava.

La storia di Il Gladiatore infatti è più che altro la storia di Russell Crowe che si scontra con il metodo Ridley Scott, un attore preoccupato, dal carattere duro, in grande ascesa ma non affermato, che si trova in un set gigante come non aveva mai affrontato, da protagonista, con 100 altri attori e 200 membri della troupe. E non sa niente del film che deve girare, non ha niente da imparare proprio. Quando le riprese iniziano ci sono 32 pagine di sceneggiatura, praticamente una mezz’oretta di girato e due sceneggiatori, Ridley Scott e tutti i produttori che buttano dentro idee. Non proprio una situazione rassicurante per chi ci deve mettere faccia e fisico. Non c’è nemmeno un nome per il suo personaggio, che verrà poi scelto un po’ a caso perché suonava bene (sempre la “filosofia Scott”: importa più l’impatto del concetto).

Il resto non è scritto perché a Ridley Scott va bene deciderlo sul momento, preferisce iniziare piuttosto che aspettare tutte le ripuliture, preferisce lavorare con gli attori. Che non è proprio il metodo che va bene a Crowe.

È esattamente sul set di quel film che nasce il mito (poi cementato da diversi altri episodi negli anni successivi) di Russell Crowe come un attore iracondo e ingestibile. Non si contano le richieste di riscrittura, le sfuriate, le urla e le minacce di andarsene e non tornare che si sono consumate in quei giorni di riprese. Ci sono intere battute che si rifiutava di pronunciare e intere pagine (scritte magari la sera prima) di cui pretendeva la riscrittura. Spesso ottenendola. Sempre secondo Crowe una grande parte dei dialoghi li ha inventati lui stesso incluso il famoso “Al mio via scatenate l’inferno” oppure il racconto che il gladiatore fa della sua proprietà cui sogna di tornare.

Ridley poi una volta dobbiamo provare a fare anche un film in cui sappiamo effettivamente quello che faremo” è una delle frasi più note di Crowe al riguardo.

In realtà, di nuovo, Scott aveva le idee molto chiare. Il Gladiatore è un produzione dal budget immenso, circa 100 milioni di dollari. La pianificazione, che da sempre è il forte di questo regista straordinario mestierante dell’arte, è maniacale e gli consente addirittura di spendere 1 milione di dollari tondo per costruire il colosseo, o almeno il 40% del colosseo (il resto è in computer grafica). Ci sono set in 4 paesi diversi, una quantità pazzesca di comparse da gestire e dettagli da antica Roma da sistemare. Tutto è pianificato così bene che anche le scene d’azione sono innovative, riprese benissimo e con un ottimo quoziente di realismo (la tigre nell’arena era effettivamente lì con Russell Crowe, che è il genere di cose che ti rende un po’ nervoso).

Addirittura Scott ha la cura di affidare Oliver Reed, attore noto per il suo bere e dalla scarsa salute, nelle mani di David Hemmings (che interpreta Cassio), in modo che non beva sul set. Hemmings farà il suo dovere ma Reed va a bere nei weekend e proprio durante una visita ad un pub beve una pinta di troppo e crolla a terra. Morto a soli 61 anni. E, cosa più grave secondo Scott, senza aver finito le scene che doveva girare!

Questo regista che non si ferma davanti a niente, e che poco meno di 20 anni dopo sarà capace di rigirare tutte le scene di un attore protagonista, sostituendolo con un altro in circa una settimana, non si fa troppi problemi e utilizza pezzi già girati per mettere insieme una versione digitale di Reed così da poter avere anche la scena che non aveva girato. Sarà uno dei primi casi in assoluto e oggi, con l’abitudine e il rispetto per l’immagine degli attori defunti che esiste, forse non sarebbe possibile. Ma allora fu fatto perché sì.

Sempre per queste ragioni (le immagini prima di tutto) la lista di anacronismi, invenzioni e implausibilità storiche presenti in Il Gladiatore è talmente lunga che non ha senso riportarli qui (il più grande di tutti è la presenza di staffe, un oggetto d’invenzione medievale che con la sua sola esistenza ha cambiato tutta la società e come era organizzata). Basti dire che due storici assunti come consulenti si sono licenziati e un altro ha chiesto che il suo nome fosse rimosso dai credits.
Ma Il Gladiatore è come Russell Crowe, è un fiume in piena, un moloch grande e grosso, che una volta lanciato alla massima velocità è inarrestabile. Ha un’energia, che gli viene dai suoi attori e dal controllo pazzesco di Scott, a cui non si può sfuggire. Dal punto di vista critico il film è altamente discutibile ma non da quello dell’impatto. Nonostante le imprecisioni e le leggerezze di scrittura, nonostante il poco riguardo per la precisione della trama e la coerenza dei dialoghi, Ridley Scott ha centrato perfettamente quel che gli preme: la creazione di un mondo credibile in cui sentimenti e sensazioni sono veicolati con le immagini e quindi ineludibili, universali.

Colonna sonora, fotografia e interpretazioni allontanavano il film anni luce dalla sua ispirazione, cioè i film d’antica Roma americani degli anni ‘60 (Spartacus in testa), lo rendevano così clamorosamente moderno, così appropriato allo spirito del tempo e così nuovo nella maniera di gestire immagini, stunt ed epica, che anche l’Academy, con 5 oscar, ha dovuto riconoscerlo.

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