Il giustiziere della notte, 46 anni dopo

Un film di destra che parla soprattutto alla sinistra, e fa domande scomode: 46 anni fa usciva nei cinema americani Il giustiziere della notte

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Il giustiziere della notte, uscito nei cinema americani esattamente 46 anni fa oggi, è contemporaneamente un capolavoro e uno dei film meno capiti della storia americana – o meglio, un’opera vittima di interpretazioni semplicistiche e riassumibili in un paio di slogan e frasette a effetto e che invece andrebbe riguardato con maggiore attenzione e resistendo alla tentazione di esclamare “è un film fascista!” (alternativamente con disgusto o gaudio, a seconda delle vostre posizioni politiche).

Tratto da un romanzo di Brian Garfield apparentemente molto simile al film ma che in realtà voleva dire tutt’altro (ci torniamo), Il giustiziere della notte è la origin story di un supereroe senza superpoteri, o se preferite la cronaca della discesa agli inferi di una persona normale che viene colpita da una tempesta che ne ribalta la vita, le convinzioni e le posizioni morali. La persona in questione si chiama Paul Kersey e ha il volto di Charles Bronson, uno che stando a chi ha lavorato con lui essudava violenza anche quando stava fermo e che qui dimostra di avere uno spettro emotivo molto meno limitato di quello che gli viene normalmente attribuito.

La triste storia di Paul Kersey

Kersey è un architetto benestante la cui moglie viene uccisa – e la figlia traumatizzata al punto da dover essere ricoverata in un ospedale psichiatrico – durante una rapina in casa, una delle tante che piagano la città di New York e l’hanno trasformata in una sorta di inferno nel quale è impossibile passeggiare senza rischiare di venire rapinati o massacrati di botte. La sua reazione all’evento, e al fatto che la polizia non sembra in grado di né particolarmente interessata a risolvere il caso, è quella di trasformarsi in un vigilante – se lo Stato non mi protegge, è il suo ragionamento, non mi rimane che risolvere io la situazione. Kersey comincia così la sua lunga catena di omicidi di malviventi, che all’inizio lo shockano e lo turbano e lentamente cominciano a divertirlo al punto che trovare i colpevoli dell’omicidio della moglie diventa una questione secondaria.

Questo è il testo, la lettura facile e lineare di un film che parla di farsi giustizia da sé e dell’importanza di portare sempre con sé un’arma per difendersi dai malintenzionati – un’idea che da sola ha un tale portato filosofico ed esistenziale radicato nella costituzione stessa degli Stati Uniti d’America che derubricarlo a “pubblicità per la NRA” è la peggiore delle semplificazioni. C’è però tantissimo di più dietro al Giustiziere della notte, una serie di riflessioni e domande e ragionamenti che sono andati scemando se non scomparendo con i sequel e che fanno sì che il primo capitolo sia ancora oggi il migliore e il più interessante.

Il giustiziere della notte: un film fascista?

Innanzitutto, Il giustiziere della notte è un film fascista? No, anzi, forse è il contrario nella misura in cui è una critica neanche troppo velata al superomismo. Di sicuro è un film di destra, che porta avanti argomentazioni di destra con un linguaggio di destra – e d’altra parte il regista Michael Winner era uno che si dichiarava politicamente “alla destra di Hitler”, nonché, a complicare ulteriormente le cose, una persona estremamente progressista su certi temi tipo l’omosessualità; non un nazista (al di là della provocazione) ma un conservatore, che dedicò tempo e denaro a sostenere la polizia e che credeva dunque nell’importanza sociale dell’ordine e della disciplina. Tutto questo è riflesso almeno in parte nel Giustiziere della notte, il cui protagonista è un “bleeding heart liberal” che soffre per le iniquità sociali e che si ritrova da un giorno all’altro a doversi confrontare con una tragedia tanto più sconvolgente perché lo costringe a mettere in discussione i propri principi morali.

O anche: Il giustiziere della notte è un film di destra che si rivolge alle persone di sinistra, e chiede loro “siete sicure che se capitasse a voi riuscireste a reagire con calma dignità e classe? Siete sicure che la tentazione della violenza e della giustizia sommaria non vi sfiorerebbe neanche per un secondo?”; aiuta che la scena dello stupro e omicidio di moglie e figlia di Kersey (perpetrati tra gli altri da un giovanissimo Jeff Goldblum) sia una delle sequenze più incisive del film, shockante e urticante e costruita apposta per far prudere le mani anche alle anime più candide. In questo senso, Il giustiziere della notte assomiglia un po’ ad Arancia meccanica visto dal punto di vista della vittima e non del carnefice.

Il paragrafo precedente, poi, non significa che Winner non abbia nulla da dire a quelli che stanno, diciamo così, dalla sua parte: ben lungi dall’essere quell’immoto macigno di carne che viene solitamente dipinto, Bronson dona a Paul Kersey una profondità e anche una fragilità che sembrano dire a chi reagirebbe come lui “sei sicuro che se capitasse a te riusciresti a mettere da parte ogni scrupolo e ogni briciola di umanità e a diventare un assassino a sangue freddo?”. Nel corso dei 94 minuti di film, Kersey non è mai un eroe, solo una persona disperata che sceglie l’ultraviolenza per elaborare il lutto; come dicevamo prima, la scoperta dell’identità dei carnefici della sua famiglia non gli interessa, quello che gli interessa è vendicarsi della categoria, sfogare il vuoto che gli hanno scavato dentro a pistolettate.

È per questo che il titolo originale del film è molto più significativo della semplificazione italiana: oltre che dalla sete di vendetta, Kersey è animato da un “death wish”, dalla segreta speranza di essere lui a rimanerci secco durante una delle sue spedizioni punitive, tanto è vero che con lo scorrere del film va in cerca di gruppi sempre più numerosi, di situazioni sempre più rischiose, fino al climax nel quale invita il ladruncolo che ha scelto come prossima vittima a tirare fuori la pistola e sparargli. Non c’è vera catarsi né vera assoluzione negli omicidi di Kersey, per quanto lui faccia di tutto per convincersi di sì; c’è solo una scala verso l’abisso, che il romanzo di Brian Garfield raccontava senza pietà e che il film di Winner un po’ rovina con quell’inquadratura finale che promette sequel su sequel e cambia completamente il senso della storia e della parabola del protagonista.

Oltre a Paul Kersey c'è di più

C’è poi nel Giustiziere della notte tutto un substrato di riflessioni sociali che poco hanno a che fare con la vicenda di Kersey e che riflettono, quelle sì, l’ideologia di Michael Winner più che di Brian Garfield, e le sue posizioni sulle forze dell’ordine e sul ruolo che hanno e che dovrebbero avere in una società che funziona. Un terzo del film circa si concentra sulla figura dell’ispettore Frank Ochoa, a cui tocca l’ingrato compito di indagare sui delitti del “vigilante” e di confrontarsi con questioni spinose tipo “da quando c’è lui i crimini sono diminuiti: è un bene?” o “se la gente comincia ad armarsi per difendersi da sola, a cosa serve la polizia?” – discussioni che negli USA erano di attualità negli anni ’70 e che non hanno ancora smesso di esserlo, e anzi si sono ulteriormente complicate ora che si è scoperto che avere più polizia per le strade non corrisponde necessariamente a una diminuzione del crimine.

Il giustiziere della notte è quindi un film su un vigilante, ma anche su come la società reagisce alla presenza di un vigilante e sui danni che può fare la presenza di una figura che si muove al di fuori del consesso civile per quanto lo faccia per quella che apparentemente è una buona causa (per questo sopra parlavamo di “supereroe”).

In chiusura, una considerazione che espande e approfondisce il discorso già accennato un paio di volte nel corso del pezzo sul finale del film e il confronto con il romanzo: Garfield (potete leggerlo qui) non apprezzò il modo in cui il film si chiude, con il primo piano su Kersey che appena trasferitosi in un’altra città mima il gesto della pistola a un gruppo di teppisti locali, perché ritiene (a ragione) che sia un dettaglio che vanifica tutto il percorso fatto dal personaggio fin lì. O meglio ne cambia completamente la traiettoria: nel libro la follia vendicativa di Kersey lo portava ad ammazzare gente solo perché era vestita in un modo che non gli piaceva, e non c’era alcuna redenzione o giustificazione alle sue azioni (tanto che Garfield non avrebbe mai voluto scrivere un sequel); il film di Winner invece si chiude con un Kersey che l’ha fatta franca, e che è riuscito a farsi trasferire in un altro posto dove non lo conoscono e dove può riprendere indisturbato le sue attività notturne.

È soprattutto una strizzata d’occhio alla possibilità di serializzare la sua storia, e l’unico momento che stona in un capolavoro: nulla vieta di far finta che non esista.

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