Il finale di Loki ci fa rivedere alcune scelte di regia sotto un aspetto completamente diverso
Loki non si chiude con il botto, ma con uno spiegone. Il finale è così forte da riuscire a giustificare un viaggio non sempre all'altezza?
Ed è un finale soddisfacente come può essere quello di una stagione e non di una serie. Non è infatti la chiusura di un’origin story come WandaVision o The Falcon and the Winter Soldier, bensì un prologo delle tante diramazioni che segneranno la fase 4. Loki è la prima serie Marvel in cui viene annunciata una seconda stagione. Troppo da raccontare, troppo ancora da fare per essere contenuta nella forma di un “film lungo ad episodi” come i due titoli che l’hanno preceduto.
Loki si salva inoltre dal più grande rischio che l’ha attraversata: ovvero quello di non contare nulla. Di essere troppo fuori dagli schemi proprio come il Rick and Morty di cui lo sceneggiatore Michael Waldron è parte essenziale e ideatore. Quando tutto può accadere, nulla accade sul serio. Quando ogni possibilità è aperta, la voglia di risolvere un mistero cala.
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Non bastavano i molti Loki, e assolutamente non serviva l’ennesima evoluzione del personaggio con le fattezze di Tom Hiddleston. Certo, resterà il rimpianto di non avere visto il personaggio titolare assumere la sua vera identità fumettistica (e mitologica). Ha sempre avuto il freno tirato, come scrivevamo settimana scorsa, non si è mai rivelato come il tessitore di inganni che dovrebbe essere.
L’episodio finale di Loki è come il goal segnato all’ultimo minuto che fa vincere una finale in cui si è stati in difficoltà per tutto il tempo. Non è una vittoria bella, pulita, meritata. È però una coppa alzata comunque. Grazie alla furbizia e tanta strategia, ma è pur sempre un trionfo.
L’episodio 6 funziona non solo perché il colpo di scena pareggia le più alte delle aspettative (e teorie) dei fan. Nemmeno perché si prende la briga di essere il momento più importante da Endgame a questa parte e di esserlo proprio in una serie televisiva su una piattaforma ad abbonamento. Funziona perché con la sua grammatica visiva, con i suoi contenuti, e soprattutto con le sue ultime battute, riesce a dare valore a tutto ciò che l’ha preceduto.
Fino ad ora in nessuna serie Marvel i personaggi hanno concorso così tanto nel definirne il significato. La sola presenza di Wanda e Visione non bastava a spiegare la filosofia del lutto espressa lungo gli episodi. Nemmeno Falcon da solo basta a essere simbolo dei pericoli del potere. Loki e Sylvie invece sono il libero arbitrio. Sono loro l’unica scelta che “Colui Che Rimane” (chiamiamolo pure Kang) ha concesso al cosmo.
Sylvie da sempre vuole distruggere la TVA. Lei è la scelta di morte che propone Kang. È la deposizione del re e l’avvento del caos. Loki invece è un sé stesso diverso, meno radicale e più maturo. Lui simboleggia la scelta di lasciare le cose come stanno. Entrambi si trovano lì, alla fine del tempo, trascinati dalle trame di colui che tutto controlla. Oltre quel momento c’è il caos, l’incognita (anche se tutti noi, e forse persino anche Kang, intuivamo come sarebbe andata a finire). La loro decisione è l'unico atto non predefinito in tutta la storia.
Sylvie non è un’assassina, nemmeno una dea irascibile e avventata. È invece una liberatrice. Il Dio del caos che fa il suo dovere di genera le infinite possibilità. E lo fa grazie al libero arbitrio, ovvero l’idea che la realtà si costruisca sulla base delle scelte di ognuno mai predeterminate da una forza superiore. Restituisce la responsabilità agli esseri viventi, i quali dovranno rispondere del proprio agire. Anche se non lo sanno. È un atto generoso, perché concede la divinità a ciascuna delle anime che popolano la fantasia Marvel. Ogni decisione, ogni intuizione fuori dalla norma, può generare mondi e realtà alternative.
Nell’ultima mezz’ora di Loki si riprende tanto del portato filosofico che ha guidato i primi due episodi. Per farlo la regista Kate Herron si è dovuta confrontare con una lunga sequenza di spiegazione, su carta piuttosto statica. Le sue scelte visive sono però cariche di senso, sono capaci di far rivedere in retrospettiva tutte le puntate precedenti con occhi nuovi.
Mentre Kang parla la cinepresa fa una lenta carrellata in avanti, e poi, senza stacchi, fa lo stesso percorso indietro tornando al punto di partenza. Nella fortezza le inquadrature girano in tondo, la figura dominante è il cerchio. Un eterno ritorno che è staticità. Lì, alla fine del tempo, ogni movimento ritorna dove è iniziato. Non c'è progresso, solo un infinito presente.
Quanti movimenti laterali ci sono invece nelle precedenti puntate. C’erano parecchio su Lamentis, ma anche negli archivi della TVA. Nel finale Loki cammina furiosamente da sinistra a destra per andare ad avvisare Mobius prima di scoprire di trovarsi in una dimensione alternativa. Nella puntata due lo vediamo camminare affiancato da Mobius nello stesso luogo per la prima volta. Ma al contrario rispetto al finale: da destra a sinistra.
Il carrello verso il basso, come visto nella puntata cinque, è spesso un movimento rivelatore di nuovi aspetti del personaggio. Entriamo nella terra e troviamo altri Loki (e un Thor Rana). E il protagonista stesso è osservato dalle sue versioni alternative che quasi lo schiacciano. Povero Dio dell'inganno, sembra così sicuro di sé, ma ogni volta che entriamo nella sua soggettiva c'è qualcuno che lo guarda dall'alto al basso.
Lo spazio e il tempo sono in gioco per definire la realtà anche nelle scelte di regia. “La Marvel non è la Time Variance Authority e Kevin Feige non è un Custode del Tempo” ha detto Michael Waldron. Per lo meno non lo è come ambiente di lavoro e come propositi (malefici) del capo. Però tutto il viaggio dei Loki verso un punto preciso, così predeterminato e così importante, non può che ricordarci della grande architettura Marvel. Chi lo sa, magari è proprio per questo che lo show è apparso in più punti freddo e limitato a strade obbligate? La serie Loki aveva un grande compito da assolvere per un fine narrativo maggiore, e per farlo si è privata del libero arbitrio.
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