Il Diavolo veste Prada è il Faust dell’alta moda
Il Diavolo veste Prada è una moderna rivisitazione del Faust dove la domanda è: venderesti la tua anima per il lavoro dei sogni, che siano tuoi o di altre persone?
Come molti film che hanno per protagonista una donna in un ruolo che normalmente va a un uomo, Il Diavolo veste Prada venne accolto come “[qualcosa] in gonnella”, o “al femminile” nella variante più delicata. Nel caso del film di David Frankel il [qualcosa] era Wall Street: giovane di belle speranze comincia a lavorare per uno squalo del mestiere e si fa corrompere fino a diventare “uno di loro”, salvo riuscire a salvare la sua reputazione per il rotto della cuffia. Il Diavolo veste Prada venne anche salutato come un raro film sul mondo della moda, o meglio del mondo dell’informazione che gira intorno al mondo della moda: tipo Tutti gli uomini del presidente, ma in gonnella appunto, e quindi ovviamente più frivolo e superficiale. Il Diavolo veste Prada, in altre parole, venne salutato come un successo ma anche con una quantità enorme di pregiudizi e valutazioni sballate, che distraggono dal fatto che, sotto la facciata fashion e l’aspetto da commedia brillante, il film con Anne Hathaway e Meryl Streep è in realtà una storia vecchia come il mondo o quantomeno come l’invenzione dell’economia e del concetto di lavoro retribuito: fin dove si può spingere una persona per arrivare dove crede di meritarsi di arrivare?
Il Diavolo veste Prada è il Faust
Il Diavolo veste Prada è il Faust, e Andrea, il personaggio di Anne Hathaway, è il dottor Faust. Una versione un po’ sfigata, in realtà: non è una persona che ha già tutto ed è annoiata dalla vita, ma che è appena all’inizio di un percorso ed è disposta a fare qualsiasi cosa lungo la strada pur di arrivare alla meta. La situazione di Andrea suonava familiare a un’intera generazione nel 2006, e continua a rimanere tale 15 anni dopo: lei e gli amici si barcamenano tra lavori temporanei e sogni di carriera, mangiano cibo d’asporto a letto, si vestono per stare comodi e non per dichiarare qualcosa, e soprattutto hanno un sogno che, a meno di impreviste botte di fortuna, si potrà realizzare solo a seguito di sacrifici, compromessi e tanta, tanta pazienza.
Quello di Andrea è il dilemma della stagista, ben noto a chiunque abbia mai sentito pronunciare durante un colloquio frasi come “pagato in visibilità” o “fa curriculum”: Il Diavolo veste Prada si apre, per lei, con un’offerta di quelle che una persona nella sua posizione non può permettersi di rifiutare, quella di lavorare come seconda assistente di Miranda Priestly (Meryl Streep, in un personaggio vagamente ispirato alla storica direttrice di Vogue Anna Winthour, forse l’ultima superstar rimasta del giornalismo mondiale), direttrice della rivista di moda Runway. Miranda è la Mefistofele di Andrea, che la tira a bordo colpita dal suo essere diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta; nello stilare il patto, Miranda mette subito in chiaro due cose con Andrea: la prima è che crede che abbia le capacità per fare tutto quello per cui è stata assunta, la seconda è che per diventare davvero brava nel suo lavoro dovrà aspirare a diventare come lei.
Il Diavolo veste Prada e la discesa agli Inferi
Il Diavolo veste Prada si può quindi anche interpretare come una letterale discesa agli inferi (e così le metafore diaboliche continuano) animata da un sentimento che è per metà rassegnazione di fronte alla necessitò di costruirsi un curriculum e per metà sindrome di Stoccolma. Miranda Priestly è una tipologia di capa che potreste o non potreste avere incontrato nel corso della vostra vita, ma che esiste ed è esattamente come viene rappresentata da Meryl Streep: consapevole di essere la migliore e di essere circondata da gente non all’altezza, incapace di riconoscere l’importanza dei ruoli, fissata con l’ottenere da chi lavora per lei il mantenimento degli stessi standard impossibili che lei stessa si auto-impone perché è ormai troppo dentro al costume da capa spietata per potersi permettere di mostrare debolezza.
Intendiamoci, non la stiamo giustificando né glorificando: nonostante David Frankel provi qui e là a mostrarci i suoi lati più vulnerabili e a dimostrarci che anche lei è un essere umano almeno per qualche minuto ogni giorno, Miranda Priestly è un personaggio indiscutibilmente negativo, tossico, la versione professionale del genitore impossibile da compiacere, e non è terribile perché esiga l’eccellenza sul luogo di lavoro (questo è un pregio) quanto perché è convinta che per ottenerla sia necessario sopprimere qualsiasi sentimento e apertura all’umanità. La tentazione che la sua figura rappresenta è di un tipo molto specifico: Andrea non vuole diventare come lei né vuole diventare lei, ma sa che sopravvivere anche solo un anno ai suoi comandi significa aggiungere al CV una riga che brilla come un faro nella notte; e il vero fascino ingannatore di Mefistofele/Miranda, quindi, sta nel fatto che riesca a convincere Andrea di vivere la vita più desiderabile del mondo, e che tutto quello che Andrea ritiene importante non è nulla di fronte alla promessa di una carriera sfavillante.
Elogio della semplicità e dell’anticarrierismo
Il Diavolo veste Prada segue quindi passo dopo passo il lungo e accidentato percorso che porta Andrea a trasformarsi nella persona che più di tutte le genera stress ma dalla quale più di tutte sogna di ricevere almeno un cenno di approvazione – e tra le righe racconta anche come ci si possa ritrovare in questa situazione senza neanche accorgersene, demolendo la propria personalità pezzo dopo pezzo a partire da richieste apparentemente razionali (“Lavori in una rivista di moda, vestiti meglio”) per arrivare in un istante alle assurdità “(Voglio il manoscritto inedito del nuovo Harry Potter per le mie bambine”, una gag che la sceneggiatrice Aline Brosh McKenna riciclerà qualche anno dopo, modificandola leggermente, nella serie TV Crazy Ex-Girlfriend).
È un percorso di formazione, o meglio il negativo di un percorso di formazione: Andrea non diventa mai davvero quello che il ruolo richiederebbe, ma impara sempre meglio a recitare la parte, tenendo sempre davanti agli occhi il miraggio del lavoro in un giornale che le piace davvero. È un tragitto accidentato e pieno di momenti orribili e anche politicamente scorretti: metà delle cose che Miranda Priestly dice, fa e fa fare spingerebbero una persona reale a rivolgersi al reparto risorse umane per sporgere reclamo, e in questo senso il feroce mondo della moda e del giornalismo di moda viene rappresentato in maniera fin troppo caricaturale ed esagerata – non per sbaglio ma per scelta, perché, per esempio, il fatto che Anne Hathaway venga apostrofata come “grassa” (!) per gran parte del film può sembrare insultante, ma è in realtà una satira della fissa di un certo mondo per un certo fisico etereo ai confini della realtà.
Ogni singola scena di Il Diavolo veste Prada, anche le più assurde, serve quindi a rinforzare un’idea alla quale chi guarda arriva con ogni probabilità ben prima di quanto ci arrivi Andrea: quel mondo non fa per lei, e non perché richieda di vestirsi sempre bene e di conoscere a memoria i nomi di centinaia di Persone Importanti, ma perché, come dice il magnifico Stanley Tucci, “la tua vita è in crisi? Vuol dire che il lavoro va bene. Quando la tua vita andrà a rotoli vorrà dire che sei pronta per una promozione”. La scelta finale di Andrea non è necessariamente una condanna del mondo della moda o un modo per dire alla sua ex capa “sto meglio di te” o “sto meglio senza di te”, ma semplicemente un modo per riconoscere una semplice verità: c’è chi nasce per essere Miranda e chi per essere Andrea, e non vale la pena vendere la propria anima per cambiare categoria.