Il diario di Bridget Jones ci piace ancora da morire, così com’è
Il diario di Bridget Jones compie vent’anni, e in tutto questo tempo è rimasto una delle migliori rom-com di sempre
Zellweger al tempo si era fatta notare per Jerry Maguire, che però non era riuscito a lanciarla quanto probabilmente anche lei sperava: con i film successivi, in particolare Il gioco dei rubini, aveva sempre fallito la prova da protagonista assoluta, non tanto per colpa sua quanto del materiale con cui si era ritrovata a lavorare. Le ci volle una parte da “bella del film” in Io, me e Irene per tornare sui radar, dopodiché Il diario di Bridget Jones diventò la sua grande occasione: la possibilità di essere protagonista assoluta, interpretando un personaggio insicuro e imperfetto e, come disse Maguire al tempo, “capace di stare in equilibrio sul sottile filo che separa commedia ed emozione”.
E quindi Il diario di Bridget Jones parla di Bridget Jones e dei suoi problemi, e li usa come fondamenta per costruire una serie di vignette più o meno collegate e dall’andamento molto letterario: il romanzo di Fielding tradisce un forte debito verso Jane Austen, e coerentemente il suo adattamento cinematografico si appoggia sia alle due fonti letterarie (Austen per i temi, Fielding per i dettagli narrativi) sia a tutte le precedenti versioni per grande e piccolo schermo di Orgoglio e pregiudizio: non è un caso che a interpretare Mark Darcy Maguire avesse chiesto da subito Colin Firth, cioè il Fitzwilliam Darcy della versione televisiva di Orgoglio e pregiudizio datata 1995 e prodotta da BBC. In altre più semplici parole, Il diario di Bridget Jones è un pasticcio di influenze e ispirazioni che vanno dalla letteratura ottocentesca a Nora Ephron passando per i Monty Python – un oggetto cinematografico molto più interessante di gran parte dei suoi contemporanei, e abbastanza raffinato da meritarsi un posto a fianco dei giganti del genere.
Quello che sorprende a vent’anni di distanza è quanto un film che già a suo tempo usciva con cinque anni di ritardo rispetto al romanzo dal quale era tratto riesca a parlare di tematiche talmente universali che sono valide ancora oggi. E che in certi casi suonano quasi profetiche: Bridget Jones è una trentenne in crisi esistenziale, cioè una categoria umana parecchio più diffusa e centrale oggi di quanto lo fosse due decenni fa. Certe sue scelte che vengono viste dalla sua famiglia come le azioni di un’aliena incomprensibile oggi sono considerate normali, comprensibili, da rispettare e non da smontare con violenza come nella terrificante scena della cena tra amici.
Il diario di Bridget Jones parla anche di molestie sul luogo di lavoro, e di quel particolare tipo di molestia che si traveste da flirt innocente e a seguito della quale il maschio può sempre affermare “sono stato provocato” o “ci stava anche lei” e passarla liscia, dimenticando tutto quel discorso sui rapporti di potere e sulle relazioni tra capo e dipendente che il film affronta (seppur con una certa scusabile superficialità); come affronta questioni più delicate, l’accettazione di sé, il rapporto con il proprio corpo, tutti temi che oggi sono ragionevolmente affrontati a tutti i livelli della produzione pop mondiale e che nel 2001 erano ancora in qualche modo pionieristici, almeno in un contesto di assoluto mainstream come questo.
Il diario di Bridget Jones parla anche di amicizia, e di amicizia tra trentenni con una vita e una carriera, e lo fa senza mai prendere la scorciatoia che porta a Friends, ma mantenendo sempre, pur in un clima quasi da realismo magico nel quale nevica solo quando lo richiede la trama, quel pizzico di realismo e di concretezza che impediscono al film di decollare e mettersi a volare insieme agli altri suoi pindarici amici, ma anzi di rimanere sempre saldamente ancorato a terra, lasciando entrare la magia solo quando davvero non se ne può fare a meno.
Il diario di Bridget Jones fa anche ridere fino alle lacrime, anche grazie a una delle sceneggiature migliori e più brillanti della carriera di Richard Curtis, uno che ha scritto anche Quattro matrimoni e un funerale e Notting Hill, per dirne solo un paio. Renée Zellweger ha un talento comico sconfinato, Hugh Grant le fa concorrenza e a Colin Firth viene solo chiesto di restare serio e non scomporsi mai, qualcosa che gli riesce con estrema facilità. Ha una grande colonna sonora, e un’ancora migliore scelta di brani non originali – anche se qui ammettiamo che esaltarsi per It’s Raining Men di Geri Halliweel è necessario un certo retroterra culturale adolescenziale senza il quale l’impatto potrebbe essere inferiore. Ha un finale talmente sdolcinato e perfetto che si qualifica come “barare”. Ha tutto, e ci piace ancora da morire, così com’è.