Il cattivo tenente compie trent’anni e fa sempre schifo
Il cattivo tenente di Abel Ferrara compie trent’anni e non ha perso un’oncia della sua carica disgustosa e provocatoria
A volte fare schifo è un merito. A volte è addirittura una necessità, una parte integrante di un’identità: se non facesse schifo, l’anonimo protagonista di Il cattivo tenente di Abel Ferrara, che oggi compie trent’anni, non sarebbe lo stesso personaggio, e tutto l’impianto del film non avrebbe senso. Figlio bastardo e ancora più devastato di un’intera generazione di “poliziotti andati a male” che a loro volta erano la progenie spuria dei pessimi ma affascinanti detective anni Quaranta, il protagonista di Il cattivo tenente è una sorta di orizzonte degli eventi per il noir, il neo-noir e tutto ciò che ci gira intorno; l’estremo più estremo, lo yin senza alcuna traccia di yang, talmente al di là di ogni redenzione che la sua unica possibilità di salvezza è diventare il protagonista di un’improbabile parabola alla Paolo di Tarso.
Forse è perché Keitel non ci presenta un personaggio alla Jimmy Doyle, che fa schifo sì, ma con ironia, che sembra sempre divertirsi a fare quello che fa, che si comporta come uno che sta giocando – a un gioco pericoloso, certo, ma sempre un gioco. L’anonimo tenente è invece una creatura autodistruttiva che va in cerca di varie forme di sballo e che si odia per questo, ma che vede nell’alternativa (portare i figli a scuola, pranzare con la suocera) una morte esistenziale ancora peggiore. Non c’è nulla di bello in Il cattivo tenente, persino le scene di sesso e sfascio sono raccontate come una sofferenza, una prova da superare più che un piacere nel quale indulgere. Al tenente non frega nulla di nulla, se non di dimenticare; non ha un’etica neanche abbozzata, non concepisce per esempio che nel mondo possano esistere anche delle vittime innocenti, che ci siano persone che vanno protette nonostante tutto, anche se hanno appena rubato la macchina del padre per andare a divertirsi in città.
Il cuore di Il cattivo tenente sta tutto in questo contrasto tra l’assoluta innocenza della suora e la perfetta corruzione del tenente, e nel fatto che il secondo vede nella prima quello che Saulo di Tarso vide mentre se ne andava bel bello a massacrare cristiani a Damasco. È un thriller privo di azione, una detective story senza detection, il ritratto di una persona che non vorremmo mai avere nelle nostre strade a occuparsi di sicurezza e legalità, un mostro respingente e soprattutto imperdonabile, un uomo senza qualità o ancora meglio un uomo con alcune qualità tutte quante negative. È la morte del noir, annegato sotto gli eccessi e il vizio e la corruzione.
È uscito trent’anni fa, e fa ancora incredibilmente schifo.