Il blocco dello sviluppatore: cosa sta succedendo ai videogiochi?
L'industria videoludica è in grande forma e sforna di continuo ottime produzioni, ma l'impressione è che sia quasi impossibile trovare una scintilla che dia nuova nuove vibrazioni e nuove emozioni
Se la tecnologia videoludica ha aperto infiniti mondi possibili, questa idea è di per sé valida solo in potenza. Nei primi anni di storia del videogioco infatti, tanto era ancora lasciato alla nostra immaginazione, quando una manciata di pixel bastava a distoglierci da qualsiasi altro pensiero e a farci concentrare su quanto stavamo osservando. Successivamente, la smania insaziabile di toccare il cielo con un dito, il “sempre di più”, hanno portato a produrre giochi di durata, qualità grafica e, talvolta, conseguente estensione narrativa maggiori. Ma queste migliorie cosa significano?
[caption id="attachment_191048" align="aligncenter" width="1920"] Open world. Open world ovunque[/caption]
Sì, perché siamo tutti nati e svezzati, videoludicamente parlando, con uno o due titoli che si sono fossilizzati in “anima e core” e ci sono serviti da termine di paragone per apprezzarne altri, o lasciarli da parte, a livello narrativo e semiotico. Se ci pensiamo bene, sceglievamo i giochi per la storia, o per il contenuto in generale: agli albori del nuovo millennio non parlavamo di specifiche tecniche, pixel, multiplayer, DLC e acquisti in-game. Ci divertivamo lo stesso? All'epoca sì; non pensavamo di avere bisogno d'altro, non avevamo necessità insorte solo più tardi, quando il bisogno (secondario e superfluo) è stato ingenerato in noi dalle nuove frontiere che hanno viziato il giocatore sempre di più. Fino a poter comprare nuovi giochi senza andare in negozio e trovare persone con cui giocare senza uscire di casa. Senza sforzo.
Così nasce un sottobosco, sempre più folto e corposo, composto da team dalla produzione più o meno costante, ma sempre interessante, in grado di rompere le barriere del conformismo formalmente imposte dalle grandi compagnie, in una sorta di tacito accordo per cui solo i piccoli inesperti possono permettersi di rischiare e, mal che vada, rompersi l’osso del collo. Si arriva in qualche modo a una complicazione dovuta dallo stesso ambito videoludico, che si è avviluppato su se stesso nel vortice soffocante del circolo vizioso che ha portato a una situazione in cui si attinge a risorse narrative sempre più povere, tanto da dover assorbire nuove (e ultime) risorse dal barile delle rimasterizzazioni di vecchie glorie, e perdurano serie come quella LEGO che, di fatto, propina poche avventure originali e tanti brand declinati in versione mattoncino e qualche supereroe tra DC Comics e Marvel. Dall’altra parte, una produzione sempre più ampia del mondo indie, a volte azzardata, altre volte innovativa e fortemente emotiva, ma spesso sorprendente e in grado di regalare emozioni in alcuni casi difficilmente esperibili altrove.
Forse il nostro tempo è uno dei più nebulosi e indecisi degli ultimi anni, un annaspare nel buio malcelato che si riversa anche sulla produzione videoludica, dove piuttosto che rischiare e partire da zero, si estendono saghe all’infinito, prosciugandole e lasciando il pubblico soddisfatto a metà. Nuove vibrazioni, nuove emozioni: tutto quello che serve sarebbe compiere un salto della fede, proponendo qualcosa che dia respiro a una stanza pullulante di MMO, open world, sparatutto e platform, nella quale l’aria comincia a farsi stantìa.