Ico, vent’anni fa l’esordio di un gioco che ha segnato la storia dei videogiochi | Speciale

Il 24 settembre del 2001 debuttava negli Stati Uniti D’America l’indimenticabile Ico, capolavoro senza tempo di Fumito Ueda

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


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Vent’anni fa esatti, il 24 settembre del 2001, faceva il suo debutto negli Usa l’indimenticabile Ico, avventura che facendo proprie lezioni apprese altrove, The Legend of Zelda su tutti, riuscì a proporre anche al grande pubblico un’esperienza diversa dal solito, sorretta da pilastri artistici, ancor prima che prettamente ludici, sensibilmente differenti da quelli che generalmente alimentavano le produzioni destinate al grande pubblico.

Nonostante il numero relativamente esiguo di copie vendute in tutto il mondo, una cifra che si aggira attorno al milione, un risultato tutt’altro che roboante soprattutto considerando la quantità esorbitante di PlayStation 2 che già all’epoca del debutto occupavano un comodo posticino vicino alla TV, difficilmente, almeno una volta in vita propria, non si è incappati, più o meno direttamente, in questa produzione Sony, quantomeno se si è videogiocatori di lunga data.

L’opera prima di Fumito Ueda nelle vesti di director, dopo aver dato il suo contributo come animatore in D, film horror interattivo in computer grafica del 1995, ed in Enemy Zero, survival horror per Sega Saturn, rappresenta ancor oggi un solido punto di riferimento non solo per i game designer di tutto il mondo, ma anche per la storia dei videogiochi che, quel giorno di vent’anni fa, si arricchì di un capolavoro che ha impreziosito le vite di chiunque abbia avuto la fortuna ed il piacere di giocarlo.

Ico screenshot

Il concept del gioco, l’idea primordiale che fece scattare la scintilla nell’immaginazione di Fumito Ueda, trova la sua genesi in uno spot pubblicitario nel lontanissimo 1997. La leggenda narra che il game designer rimase colpito dalle immagini che ritraevano una donna che teneva per mano un bambino durante una passeggiata in un bosco, immagine di per sé banale, ma che ispirò l’allora promettente artista che già, tra sé e sé, lavorava mentalmente a qualcosa dopo la lettura del manga Galaxy Express 999, ambientato nello stesso universo narrativo del ben più noto Capitan Harlock, e in seguito al completamento di Another World, avventura per Amiga e Atari ST del 1991, la cui eredità in termini di design è piuttosto lampante.

Due i perni attorno cui lo sviluppo è ruotato sin dal primo giorno di programmazione vera e propria, momento che possiamo fissare orientativamente attorno al 1998: la preminenza dell’aspetto artistico, l’eliminazione di qualsiasi elemento di disturbo. Ico, non a caso, è uno dei primi giochi a fare a meno di qualsiasi indicatore su schermo, proprio affinché lo spettatore potesse godere degli scorci disegnati dal team di sviluppo senza mai distoglierne lo sguardo. Inoltre, sempre con l’intenzione di perseguire nei suoi obiettivi, Ueda opera per sottrazione in qualsiasi altro aspetto della sua creatura: pochi nemici, poche armi, pochi dialoghi, poche scene d’intermezzo.

Laddove il resto dell’industria, galvanizzato dalla maggior potenza acquisita grazie alla generazione di hardware a 128-bit, aumentava le dimensioni delle proprie produzioni, Ico si spogliava persino di alcuni dettagli grafici al fine di creare scenari quasi lisergici, immersi in una sottile ed impalpabile patina trasparente.

La produzione Sony, inutile nasconderlo, è certamente figlia del suo tempo, inevitabilmente invecchiata sotto diversi punti di vista. Il sistema di controllo è macchinoso, i combattimenti, se così possono definirsi, sono più una scocciatura che un piacevole diversivo all’esplorazione, alcuni enigmi possono sembrare banali e già visti altrove. Eppure, la sua naturale capacità di affascinare l’utente non ha perso un grammo del suo originale smalto.

Questa tenue e delicata favola, a tratti raccontata attraverso parole volutamente incomprensibili, a meno che non possediate la versione giapponese del gioco e lo abbiate completato almeno una volta, è ancora in grado di emozionare. Proprio facendo leva sull’istinto primordiale di difendere chi riteniamo incapace di farlo da solo, la fragile Yorda in questo caso, il gioco incentiva una sorta di crescita interiore stimolata da un innato ed inspiegabile senso di protezione che avvolge il videogiocatore.

Anche in questo caso si può parlare di sottrazione, di regressione allo stato primordiale. Non ci sono intrighi, non c’è un substrato narrativo degno di questo nome che motivi le reazioni dei personaggi coinvolti, manca qualsiasi reale evoluzione del protagonista. Tutto è immediato, esplicito, spontaneo e proprio per questo anche potente, universale, appassionante, senza tempo, per l’appunto.

Ico screenshot

La potenza di Ico è effettivamente in tutto quello che non c’è. Le stesse premesse narrative, attivano l’immaginario dell’utente proprio perché (quasi) del tutto assenti. Non è un caso che non appena si è costretti a fare qualcosa, combattere per esempio, quella sottile magia si interrompe per un momento.

Vent’anni, nel mondo dei videogiochi, sono tantissimi. Eppure il fascio di luce proiettato da Ico illumina ancora il cammino dei game designer contemporanei e riscalda i cuori di chi ha avuto la fortuna di giocarlo. E non è affatto un caso se in tanti si stiano chiedendo a cosa stia lavorando Fumito Ueda, alle prese con un misteriosissimo progetto ormai da diversi anni. Sarà forse arrivato il momento per un sequel diretto di Ico? Sperarci è criminale, vista la natura dell’opera originale, ma allo stesso tempo è dannatamente comprensibile.

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