Ico, vent’anni fa l’esordio di un gioco che ha segnato la storia dei videogiochi | Speciale
Il 24 settembre del 2001 debuttava negli Stati Uniti D’America l’indimenticabile Ico, capolavoro senza tempo di Fumito Ueda
Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".
Nonostante il numero relativamente esiguo di copie vendute in tutto il mondo, una cifra che si aggira attorno al milione, un risultato tutt’altro che roboante soprattutto considerando la quantità esorbitante di PlayStation 2 che già all’epoca del debutto occupavano un comodo posticino vicino alla TV, difficilmente, almeno una volta in vita propria, non si è incappati, più o meno direttamente, in questa produzione Sony, quantomeno se si è videogiocatori di lunga data.
Il concept del gioco, l’idea primordiale che fece scattare la scintilla nell’immaginazione di Fumito Ueda, trova la sua genesi in uno spot pubblicitario nel lontanissimo 1997. La leggenda narra che il game designer rimase colpito dalle immagini che ritraevano una donna che teneva per mano un bambino durante una passeggiata in un bosco, immagine di per sé banale, ma che ispirò l’allora promettente artista che già, tra sé e sé, lavorava mentalmente a qualcosa dopo la lettura del manga Galaxy Express 999, ambientato nello stesso universo narrativo del ben più noto Capitan Harlock, e in seguito al completamento di Another World, avventura per Amiga e Atari ST del 1991, la cui eredità in termini di design è piuttosto lampante.
Laddove il resto dell’industria, galvanizzato dalla maggior potenza acquisita grazie alla generazione di hardware a 128-bit, aumentava le dimensioni delle proprie produzioni, Ico si spogliava persino di alcuni dettagli grafici al fine di creare scenari quasi lisergici, immersi in una sottile ed impalpabile patina trasparente.
La produzione Sony, inutile nasconderlo, è certamente figlia del suo tempo, inevitabilmente invecchiata sotto diversi punti di vista. Il sistema di controllo è macchinoso, i combattimenti, se così possono definirsi, sono più una scocciatura che un piacevole diversivo all’esplorazione, alcuni enigmi possono sembrare banali e già visti altrove. Eppure, la sua naturale capacità di affascinare l’utente non ha perso un grammo del suo originale smalto.
Questa tenue e delicata favola, a tratti raccontata attraverso parole volutamente incomprensibili, a meno che non possediate la versione giapponese del gioco e lo abbiate completato almeno una volta, è ancora in grado di emozionare. Proprio facendo leva sull’istinto primordiale di difendere chi riteniamo incapace di farlo da solo, la fragile Yorda in questo caso, il gioco incentiva una sorta di crescita interiore stimolata da un innato ed inspiegabile senso di protezione che avvolge il videogiocatore.
Anche in questo caso si può parlare di sottrazione, di regressione allo stato primordiale. Non ci sono intrighi, non c’è un substrato narrativo degno di questo nome che motivi le reazioni dei personaggi coinvolti, manca qualsiasi reale evoluzione del protagonista. Tutto è immediato, esplicito, spontaneo e proprio per questo anche potente, universale, appassionante, senza tempo, per l’appunto.
La potenza di Ico è effettivamente in tutto quello che non c’è. Le stesse premesse narrative, attivano l’immaginario dell’utente proprio perché (quasi) del tutto assenti. Non è un caso che non appena si è costretti a fare qualcosa, combattere per esempio, quella sottile magia si interrompe per un momento.
Vent’anni, nel mondo dei videogiochi, sono tantissimi. Eppure il fascio di luce proiettato da Ico illumina ancora il cammino dei game designer contemporanei e riscalda i cuori di chi ha avuto la fortuna di giocarlo. E non è affatto un caso se in tanti si stiano chiedendo a cosa stia lavorando Fumito Ueda, alle prese con un misteriosissimo progetto ormai da diversi anni. Sarà forse arrivato il momento per un sequel diretto di Ico? Sperarci è criminale, vista la natura dell’opera originale, ma allo stesso tempo è dannatamente comprensibile.