I figli degli uomini e altre distopie moderne: chi ci ha azzeccato?

Partendo da I figli degli uomini abbiamo deciso di analizzare dieci distopie moderne 1 gennaio 2000, e cercare di capire quanto ci abbiano azzeccato

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Da qualche giorno è arrivato su Netflix un film entrato prepotentemente nell’immaginario popolare per via dei suoi piani sequenza, una di quelle frasi che mai avremmo pensato di poter scrivere: è I figli degli uomini, capolavoro di sci-fi sociale datato 2006, diretto da Alfonso Cuarón (Premio Oscar) e tratto da un romanzo di P.D. James. Ora che sapete di cosa stiamo parlando avrete capito che quella sui piani sequenza era una battuta per rompere il ghiaccio: non che non ci siano o non siano impressionanti (Youtube straborda di video che li celebrano e/o spiegano come siano stati girati), ma il film con Clive Owen e Julianne Moore è molto di più, un grandissimo pezzo di fantascienza distopica e, in un certo senso, post-apocalittica, nella misura in cui l’apocalisse non è una catastrofe nucleare ma il crollo della fertilità dell’essere umano, in sostanza il modo più delicato e infallibile per portare all’estinzione la nostra specie.

La cosa migliore che possa accadere a un racconto distopico è il fatto di rivelarsi completamente falso: la natura stessa del genere prevede che se mai dovessero realizzarsi le previsione contenute nel racconto ci troveremmo di fronte a un grossissimo problema, e tendenzialmente lo scopo di una distopia è metterci in guardia e darci gli strumenti per evitare di trovarci in quella situazione. Forse è per questo che negli ultimi anni, da quando idee come sovrappopolazione, inquinamento, consumo di suolo, riscaldamento globale, estinzioni di massa sono diventate parte di un vocabolario condiviso a liveello mondiale, il genere ha conosciuto una nuova giovinezza: abbandonate le distopie più facili e plausibili (autoritarismo, dittature, fascismo, e il sempreverde “il mondo dopo una guerra termonucleare”), il mondo dell’intrattenimento ha cominciato ad allargarsi a uno spettro sempre più ampio di futuri possibili e possibilmente da evitare. Partendo proprio da I figli degli uomini abbiamo deciso di analizzarne dieci tra quelle uscite dopo il 1 gennaio 2000, e cercare di capire quanto ci abbiano azzeccato.

I figli degli uomini

Nonostante sulla carta non sia un argomento particolarmente sexy, la distopia a base di crisi di natalità ha letteralmente dominato gli ultimi vent’anni di cinema, come vedrete andando avanti nella lettura. Per ottimi motivi: è già dagli anni Novanta che la scienza ci mette in guardia contro il crollo della fertilità maschile più o meno in tutto il mondo, e i dati più aggiornati sul tasso di fecondità nel mondo mostrano come la gran parte dei Paesi occidentali stia andando incontro a un crollo delle nascite (e di conseguenza a un invecchiamento generalizzato della popolazione) che avrà/sta già avendo conseguenze devastanti sulla stabilità sociale. L’Italia, per restare in casa nostra, è al 174esimo posto al mondo (su 195) per tasso di fecondità nel mondo, e addirittura a Hong Kong il numero di figli messi al mondo in media da una donna sta per scendere sotto l’1. Tutto questo (che, come dicevamo, vale anche per altri dei film citati in questo pezzo) rende I figli degli uomini una delle distopie più azzeccate del ventennio, non solo per cone racconta la crisi della fertilità, ma per come rappresenta le possibili conseguenze di un blocco totale delle nascite.

Codice 46

Codice 46

Il film di Michael Winterbottom racconta di un mondo nel quale la fertilità non è crollata, ma è tenuta strettamente sotto controllo dalle autorità centrali: ogni accoppiamento è monitorato e deve venire preventivamente autorizzato per impedire incroci genetici sfavorevoli, che a loro volta sono una conseguenza dell’introduzione della pratica della clonazione nel quotidiano. Quotidiano che assomiglia parecchio a quello raccontato da Orwell in 1984, o ancora meglio da Huxley nel Mondo nuovo: la vita di chi sta in città è regolata in ogni dettaglio, a botte di “codici”, e chi invece ha la sfortuna di trovarsi al di fuori della bolla vive in una sorta di post-apocalisse senza l’apocalisse, un deserto arido e bruciato dal sole dove i cittadini non si avventurano per paura dei tumori. Siamo ancora lontani da una situazione così estrema (e ancora non siamo in grado di creare virus che permettono di leggere nel pensiero), ma l’idea di un “grande fratello” che traccia ogni nostro movimento e sa tutto di noi non è più così lontana quanto potesse sembrare ai tempi di Orwell.

Minority Report

Minority Report

Come molte delle opere cinematografiche tratte da Dick, anche Minority Report è una collezione di spunti e idee sul futuro della nostra specie e della nostra società, e andrebbe analizzato e smontato pezzo per pezzo per scoprire cosa sia azzeccato e cosa invece – pensate a Blade Runner e alle sue macchine volanti, per esempio – non lo sia neanche per scherzo. Nel caso del film di Spielberg, l’idea più forte, oltre che centrale nell’intera vicenda, è quella della possibilità di prevedere i crimini, e dunque prevenirli prima che vengano messi in atto. Ovviamente nella realtà non esistono i Precog né la possibilità di prevedere il futuro, ma l’idea di prevenire un crimine prima che venga commesso ha basi solide: la città di Chicago, per esempio, è diventata famosa (o famigerata) dal 2012 per il suo programma di previsione di potenziali crimini, con conseguente schedatura e classificazione di ogni cittadino in base al rischio che rappresenta per la società. Inutile aggiungere che in questi otto anni non è andata benissimo...

The Island

The Island

La distopia del film di Michael Bay è, per fortuna, ancora molto lontana dal diventare realtà (e se non l’avete ancora visto passate oltre, perché da qui iniziano gli SPOILER pesanti): a quanto sappiamo non esistono posti al mondo che fungono da “fattorie di organi”, enormi Truman Show dove gli esseri umani vengono intrappolati (e convinti che “là fuori” ci sia l’apocalisse) e mantenuti in salute finché non raggiungono l’età giusta per venire “raccolti”. Dovendo indicare una qualche forma di parallelo tra l’isola di Bay e il nostro mondo, potremmo parlare del fatto che gli abitanti della struttura vivono in quarantena e hanno come sogno ultimo il trasferimento su un’isola “priva di patogeni”, ma forse l’analogia è un po’ tirata per i capelli.

Never Let Me go

Never Let Me Go (Non lasciarmi)

Il film tratto dal romanzo del premio Nobel kazuo Ishiguro è una sorta di versione romantico-strappalacrime di The Island, con in più il carico da undici che i protagonisti non solo vengono mantenuti dallo Stato per diventare prima o poi un serbatoio di organi, ma sono pure cloni creati in laboratorio a questo scopo – un’idea che se applicata al nostro mondo puzza di complottismo, ma che in realtà è stata più volte esplorata, almeno a livello teorico: qui per esempio ne parlava nel 2015 il biologo e filosofo Francisco Ayala, quando ancora lavorava alla UC Irvine prima di venire cacciato con disonore in seguito a uno scandalo sessuale.

The Congress

The Congress

Liberamente (molto liberamente) tratto dal romanzo di Stanislav Lem Il congresso di futurologia, il capolavoro in tecnica mista di Ari Folman dipinge una distopia molto specifica perché applicata non all’intera umanità, ma a quelle che chiamiamo “celebrità”, persone la cui immagine è fondamentale per il successo tanto quanto il talento. Robin Wright, la protagonista del film, si vede costretta a vendere i diritti sulla propria immagine per salvare il figlio gravemente malato, e il risultato è che “Robin Wright” smette di essere un’attrice e diventa il suo stesso avatar, di proprietà della fittizia multinazionale dell’intrattenimento Miramount. La distopia vera del film non si realizza prima del finale, ma l’idea che una persona possa diventare il suo alter ego digitale non è particolarmente lontana dalla realtà: chiedetelo a Peter Cushing e Carrie Fisher, per esempio, o meglio ai loro avatar.

RPO

Ready Player One

Con ogni probabilità, il mondo tra 25 anni non assomiglierà (ancora) a quello distopico e quasi post-apocalittico raccontato da Ernest Cline nel suo Ready Player One e poi trasposto al cinema da Steven Spielberg (che con due film in classifica si rivela inaspettatamente essere il re della distopia moderna) – per arrivare a quello, probabilmente, ci vorrà ancora qualche decennio di catastrofi ambientali. Ma l’idea di un universo virtuale che diventa per milioni di persone il rifugio da una realtà orrenda e insostenibile ci è familiare fin dai tempi di Neuromante, e diventa sempre più concreta con ogni nuovo evento su Fortnite, o visita a un’isola di Animal Crossing. La differenza vera tra fiction e realtà non è tanto nel cosa, quanto nel come: a confronto con la realtà (virtuale e reale) che si vede nel film, la “nostra” versione di Ready Player One è infinitamente meno tossica e più integrata nel resto del tessuto sociale, come dimostra tra l’altro il boom di teleconferenze tenutesi durante la quarantena su Red Dead Online.

In Time

In Time

Lo scriviamo senza tema di smentita: In Time è tutto tranne che un grande film, anzi in quanto oggetto cinematografico è emintemente mediocre e dimenticabile, con picchi di ridicolo involontario tipo l’idea di sottosfruttare Olivia Wilde all’unico scopo di ridefinire verso l’alto il concetto di “MILF”. L’idea più o meno distopica del film di Andrew Niccol è quella che gli esseri umani sono stati modificati geneticamente così da smettere di invecchiare a 25 anni, e da avere una sorta di “data di scadenza” dopo la quale, semplicemente, muoiono; e ovviamente, come in ogni distopia che si rispetti, ci sono quelli il cui countdown è brevissimo (i poveri) e quelli che invece sono sostanzialmente immortali (i ricchi). Siamo a tanto così dal fantasy in quanto a plausibilità, eppure l’idea che il tempo non sia altro che un’altra forma di moneta ha origini antiche e nobili.

Automata

Autómata

Il sottovalutatissimo film di Gabe Ibáñez ha l’unico difetto di mettere troppa carne al fuoco: parla di robot asimoviani e dei loro protocolli per prevenire l’auto-miglioramento e dunque il rischio che diventino autocoscienti, ma è anche una metafora sullo schiavismo moderno e su come una fetta di mondo ne sfrutti un’altra per svolgere tutte quelle attività considerate troppo “basse” per il nostro privilegio. C’è però anche un sottotesto ambientalista (o comunque che tratta la questione ambientale) che risuona parecchio con la nostra situazione attuale: la nostre specie è andata incontro all’apocalisse e si è quasi estinta in seguito a una serie di brillamenti devastanti della nostra stella, e il risultato è un’umanità intrappolata nelle poche città rimaste, con il deserto che avanza e nessuna speranza di tornare alla verdissima situazione precedente. La seconda parte dell’equazione è già in atto ed è colpa nostra, mentre per la prima, quella sull’esplosione solare che distrugge tutto, be’... buona lettura.

Idiocracy

Questa riteniamo di non doverla neanche spiegare.

Idiocracy

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