I 20 blockbuster più importanti degli ultimi vent’anni

Nel giorno che segna la fine del 2019, Andrea Bedeschi ci racconta i blockbuster più importanti degli ultimi vent'anni...

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"Bede, comunque ricordati che a te tocca la classifica dei 20 blockbuster più importanti degli ultimi vent'anni. E in bocca al lupo col Signore degli Anelli HAHAHAHA".

A vederlo, con la sua compostezza ed educazione tipicamente meneghine, può non sembrare, ma quando vuole Berni sa essere mefistofelico e la sua risata può gelare il sangue in puro stile Vincent Price.

E quella regalatami al termine della chiacchierata che abbiamo fatto al telefono qualche giorno fa poteva essere aggirata solo in un modo: eliminando la Trilogia di Peter Jackson dalla selezione che ho dovuto fare.

Anche perché siamo onesti. Al netto delle uscite italiane "in ritardo" dei tre film tratti dal capolavoro di Tolkien che avrebbero fatto slittare al 2002, al 2003 e al 2004 le varie apparizioni in classifica, il risultato sarebbe stato comunque quello di una sfida vinta in partenza.

La Trilogia Tolkeniana gioca in una categoria a parte, in una inarrivabile Champions League dove solo lei ha diritto di stare, giocare e trionfare. Ergo, il motivo della sua assenza è decisamente opposto a quello SPOILER! della mancata presenza di un qualche capitolo di Lo Hobbit, saga che ha avuto sì le sue indubbie soddisfazioni al box office, ma che non è stata capace di ripetere, per una lunga serie di motivi che non staremo qua a spiegare, l’exploit di quel magico trio composto da La Compagnia dell’Anello, Le Due Torri e Il Ritorno del Re.

Eliminare questi tre film dall’equazione mi ha permesso di porre l’attenzione su altre pellicole che, oggettivamente, non avrebbero altrimenti potuto competere.

Dopo aver doverosamente messo le mani avanti per evitare quella che sarebbe stata una sacrosanta flagellazione su pubblica piazza, vi ricordo che il criterio della selezione si basa, come è giusto che sia, sulle date di uscita italiane delle varie pellicole e che l’impiego del termine “blockbuster” è da intendersi tanto dal punto di vista produttivo, di pellicola ad alto budget per intenderci, quanto di pellicola pop, di opera capace di imprimersi a fuoco nell’immaginario collettivo (e nel box office) a prescindere dal suo costo effettivo e pratico.

Come ultima nota a margine, prima di accompagnarvi nella lettura dell’elenco, suggerisco agli/alle eventuali criticoni/e del concetto di ventennio applicato a questo articolo la lettura di questo illuminante pezzo.

I 20 BLOCKBUSTER PIÙ IMPORTANTI DEGLI ULTIMI VENT'ANNI

2000 - The Blair Witch Project, di Daniel Myrick, Eduardo Sánchez

Non è stato semplice scegliere l’esponente, il simbolo cinematografico dell’anno che ha dato inizio al nuovo millennio. Il y2k ci ha regalato roba tipo Il Gladiatore, X-Men, Unbreakable - Il Predestinato, Mission: Impossible 2.

Ma non c’è nulla di più emblematico di quel mockumentary horror che ha sia chiuso che inaugurato un millennio, uscendo nel 1999 nei cinema americani, ma nel 2000 in quelli italiani.

The Blair Witch Project ha avuto un impatto mediatico senza precedenti, è stato il primo film figlio di internet quando ancora il web non abitava nelle nostre tasche e nei nostri zainetti, quello che ha anticipato i successivi 20 anni di campagne virali, in un periodo in cui il massimo a cui potevamo ambire era una linea ISDN. Riprendendo un genere, quello del finto documentario horror, che qualche anno fa ha visto il cinema italiano dominare incontrastato, pensate a Deodato, pensate ai “Mondo Movies”, con soli 60k dollari, Myrick e Sánchez hanno dato vita a un fenomeno di costume che, ancora oggi, merita di essere studiato e ammirato per il suo essere all’avanguardia.

Chiedete a Jason Blum e Oren Peli se non ci credete.

Blair Witch Project

2001 - Shrek, di Andrew Adamson, Vicky Jenson

C’è vita dopo la Pixar?

È possibile creare un’alternativa allo studio che, dal 1995, si era proposto (e imposto) come “la nuova Disney”?

Non era semplice fornire una risposta, specie in un periodo in cui il cinema d’animazione stava passando dall’essere “una roba per bambini” a prodotto capace di coniugare le esigenze del pubblico mainstream con quelle delle varie “stagioni dei premi”.

Dopo aver tentato ogni strada, dall’animazione tradizionale del Principe d’Egitto alla stop motion di Galline in Fuga (realizzato insieme alla Aardman), la DreamWorks Animation ci regala una rovesciata da 40 metri con qualche anno di anticipo su Zlatan Ibrahimović. Quel film che, con un sagace titolo yiddish (שרעק, Shrek) riadattava in maniera libera e intelligente la fiaba di William Steig. Certo, il budget di 60 milioni era quasi esattamente la metà di quello del coevo Monsters & Co. tanto che un paragone tecnico fra i due film era e resta ingeneroso. Ma finalmente la DreamWorks Animation era riuscita a trovare una sua strada, un percorso fatto di omini pan di zenzero giganti, di ciuchini logorroici, di orchi fatti a strati come le cipolle e di villain scarsamente dotati (solo di statura? Chissà….) che cercavano di sopperire alle loro mancanze con castelli giganteschi e “tirannici” che parevano avere più di un aspetto in comune con quelli presenti nei parchi a tema degli ex datori di lavoro di Jeffrey Katzenberg.

Avete capito di chi parlo, no?

2002 - Spider-Man, di Sam Raimi

Due anni dopo l’X-Men di Bryan Singer, quel genere oggi così discusso (chiedete a tutti quei registi che da dieci anni a questa parte sostengono che i cinecomic stiano uccidendo il cinema), ci riprova.

E ci riprova alla grande grazie al genio di un regista, Sam Raimi, per la prima con un quantitativo colossale di soldi in mano, ma che fin dai giorni degli esordi low budget aveva dato prova a suon di shaky camera di avere un gusto tutto suo per la spettacolarità.

A distanza di quasi 20 anni Spider-Man occupa ancora un posto di tutto rispetto non solo nei cuori di vecchi e nuovi amanti dei fumetti, ma anche di autentici “insospettabili”

Andate a chiedere a Luca Guadagnino se non ci credete.

2003 - La Maledizione della Prima Luna, di Gore Verbinski

Ci sono stati anni in cui la Disney aveva le idee decisamente meno chiare di oggi sul come sfruttare le sue proprietà intellettuali.

Alcuni si riferiscono a quegli anni come a una generica “età oscura pre Bob Iger e Alan Horn”. Non è un caso che i primi tentativi di traduzione per il grande schermo delle ride presenti nei Parchi a Tema dello studio siano stati dei clamorosi buchi nell’acqua, dal televisivo Tower of Terror a The Country Bears passando per Mission to Mars di Brian De Palma (già).

Poi, nel 2003, la svolta. No, ovviamente non parliamo di La Casa dei Fantasmi con Eddie Murphy (a proposito, visto che si tratta della mia ride preferita, non avrei nulla in contrario se Bob and co. decidessero di riprovarci, con cognizione di causa questa volta), ma di quel folle film acquatico un po’ adattamento dell’omonima ride, Pirati dei Caraibi appunto, un po’ adattamento di Monkey Island che, dal giorno alla notte, ha inaugurato una delle saghe più redditizie della storia del cinema e consacrato come star di Serie A Johnny Depp, l’ex attore feticcio di Tim Burton vero e proprio beniamino di una larga fetta di cinema indie americano, da John Waters a Jim Jarmusch.

2004 - Harry Potter e il Prigioniero di Azkaban, di Alfonso Cuaròn

I primi due film di Harry Potter, La Pietra Filosofale e La Camera dei Segreti, non hanno solo inaugurato un franchise di successo. Hanno proprio dato il via a un iter produttivo di cui oggi viene “accusata” principalmente la Disney, ma che invece ha trovato terreno fertile in casa Warner grazie al genio del suo COO Alan Horn. Non a caso passato alla Disney nel 2012.

Eppure, malgrado il coinvolgimento di un bona fide filmmaker come Chris “Mamma ho Perso l’Aereo” Columbus, i primi due Potter movie pagavano lo scotto di essere degli adattamenti troppo letterali dell’opera scritta tanto da risultare delle splendide cartoline illustrate dei libri di JK Rowling e nulla più. Dei belli senz’anima, anche alquanto noiosetti (specie il secondo) una volta superato il “Wow factor” iniziale.

Poi il plot twist. 

Con la benedizione della stessa autrice, che aveva amato Y Tu Mamà También e La Piccola Principessa, la Warner Bros ingaggia un regista che inizialmente non aveva neanche intenzione di dirigere Il Prigioniero di Azkaban visto che non aveva mai letto i libri della saga né visto le due pellicole di Chris Columbus.

Da quel giorno la saga di Harry Potter non è stata più la stessa. Hogwarts aveva cambiato faccia rispetto ai primi due film, assumendo un’estetica, una struttura e una conformazione delle aree che sarebbero poi rimaste per gli anni a seguire. Ma soprattutto, il franchise aveva finalmente a che fare con un vero e proprio adattamento ragionato e non con una traduzione pagina per pagina dei libri. Certo, ancora oggi riesce a mandare su tutte le furie il fandom più intransigente per come salta a pie’ pari backstory difficili da inserire in un film (pensate all’origine della Mappa del Malandrino), eppure Il Prigioniero di Azkaban resta una perla di design cinematografico che riesce a trasmettere tutta la magia del racconto forse più complesso creato dalla scrittrice inglese.

2005 - Batman Begins, di Christopher Nolan

Se con Harry Potter la Warner Bros aveva inaugurato un modo di fare cinema che poi altri avrebbero ereditato e reso ancora più “larger than life”, con Batman Begins dava ufficialmente il via a un altro trend, anche questo proseguito con alterne fortune: l’affidare la regia di importanti blockbuster a registi che, con il settore, non avevano tanta dimestichezza.

E badate bene che se, a prima vista, la Fox e la Sony parevano aver fatto qualcosa di simile con X-Men e Spider-Man a ben vedere si trattava di situazioni che presentavano differenze di non poco conto. In primis, si trattava di proprietà intellettuali su licenza, non direttamente collegate ai relativi studios (che in ogni caso non volevano perdere dollari con dei tonfi commerciali, questo è chiaro). In seconda istanza, Sam Raimi e Bryan Singer non avevano dimestichezza col concetto di “blockbuster” stricto sensu, ma avevano entrambi dei trascorsi da autentici “it boy”. Raimi era già un filmmaker di culto, che vantava anni e anni di partnership con i fratelli Coen e una certa dimestichezza col pop. D’altronde era pur sempre il papà di La Casa 1 e 2, L’Armata delle Tenebre, Darkman e Pronti a Morire.

Bryan Singer faceva parlare di sé da anni e anni grazie a I Soliti Sospetti, una delle pellicole simbolo del nuovo cinema americano degli anni novanta, quella sulla bocca di tutti che gli appioppò l’attributo di enfant prodige di Hollywood.

Con Batman le carte in tavola erano ben altre.

Batman era - ed è - la punta di diamante di una casa editrice direttamente collegata allo studio.

Batman era - ed è - un’icona riconosciuta e ammirata a ogni angolo del globo, tanto che basta vedere la sagoma stilizzata di un pipistrello per fare 1+1.

Batman è un linguaggio universale.

Christopher Nolan, malgrado Memento e le buone performance del remake di Insomnia, non era ancora quello che è poi diventato proprio grazie a Batman, un regista capace di vendere un film grazie al suo nome. Memento era oggetto di venerazione e curiosità e Insonnia era “il thriller con Robin Williams e Al Pacino che non dormiva”. Non era ancora “un film di Christopher Nolan”.

Affidare la rinascita di Batman a un filmmaker che aveva avuto il coraggio di dire ai dirigenti della Warner che il rilancio del personaggio non doveva seguire i passi degli altri film dedicati all’Uomo Pipistrello, da lui ritenuti esercizi di stile, più che dei drammi sulla crescita del personaggio, era un vero e proprio atto di fede.

Ma come insegna Indiana Jones “l’uomo penitente è umile e si inginocchia al cospetto di Dio”. E specialmente dopo i due Batman di Joel Schumacher, erano davvero tanti i mea culpa che gli alti papaveri della Warner dovevano recitare. 

A quanto pare, qualcuno ha ascoltato le preghiere.

Batman Begins

2006 - The Departed, di Martin Scorsese

Quando Martin Scorsese decide di fare un remake, lo fa a modo suo. 

Come è giusto che sia. 

Ingaggia due star gigantesche come Leonardo DiCaprio e Matt Damon, li mette vicino a una leggenda vivente di nome Jack Nicholson e infarcisce il tutto con dei comprimari di nome Martin Sheen, Alec Baldwin, Mark Wahlberg e Ray Winston.

Poi prende l’ossatura dello splendido thriller poliziesco di Andy Lau e Alan Mak, la remixa impostando il frullatore a velocità “Full Scorsese” e dà vita a un ganster movie pieno di quella drammatica moralità che è lecito attendersi da un’opera del maestro italoamericano, un’opera che tradisce in più punti quella da cui prende le mosse, specialmente levando le parti più melodrammatiche (tanto care al cinema di Hong Kong) ed esaltando la “carenza di figure paterne” dei protagonisti, marionette nelle mani dei propri padri surrogato.

Un film forse più “divertito e divertente”, per certi versi, delle parabole dell’Henry Hill (Ray Liotta) di Quei Bravi Ragazzi, del Sam "Asso" Rothstein (Robert De Niro) di Casinò, ma sicuramente più riuscito e compatto dello sfilacciatissimo The Irishman tanto che ancora oggi, a 12 anni di distanza, non posso fare altro se non osservare con ammirazione la lista dei meritati Oscar ricevuti nel febbraio del 2007.

2007 - Transformers, di Michael Bay

Michael Bay è uno che va tenuto a freno.

Contenuto.

Se gli lasci le briglie troppo sciolte poi se ne esce con roba come Transformers - L’Ultimo Cavaliere o, peggio, 6 Underground, l’effettivo emblema di tutto quello che non funziona nel modello produttivo di una realtà come Netflix che non deve fare i conti col botteghino, ma solo con dei nomi da piazzare sulle proprie “sagaci” campagne social per invogliare la gente ad abbonarsi. Poi se il film non lo guarda nessuno, non importa.

Se però alle spalle ha qualcuno che di nome fa Steven e di cognome Spielberg, può anche riuscire a tirare fuori dal cilindro un film con dei forti richiami a E.T., l’amicizia fra Sam Witwicky e Bumblebee è puro Spielberg, dove il Bayhem riesce sia a servire la trama che a deliziare gli occhi (e questo nonostante Bay abbia da sempre per l’apparato bellico/militare lo stesso sguardo voluttuoso e affascinato che un regista della Brazzers potrebbe avere per una scena di double penetration) e dare vita a un film d’intrattenimento davvero esemplare.

Il problema poi è che Steven Spielberg ha avuto altro da fare e non ha potuto continuare a fare da balia.

2008 - Iron Man, di Jon Favreau

Se Batman Begins ha inaugurato la trionfale marcia della Trilogia di Nolan, nell’anno in cui in sala sarebbe arrivato Il Cavaliere Oscuro, abbiamo assistito alla nascita di quell’Universo Cinematografico che avrebbe cambiato per sempre la storia recente dei blockbuster.

Dopo il trionfo commerciale di Elf - Un Elfo di nome Buddy e il mezzo passo falso del comunque ottimo Zathura, Jon Favreau inaugura in grande stile la marcia trionfale dei Marvel Studios. Favreau, insieme a un Robert Downey Jr risorto dalle ceneri di un passato burrascoso e già da subito indistinguibile dal suo personaggio, trasforma in icona un supereroe che, fino a mezz’ora prima che il film arrivasse in sala, era considerato un supereroe di serie B da impiegare perché Spider-Man e X-Men erano off limits.

2009 - Bastardi senza Gloria, di Quentin Tarantino

Ogni singolo film di Quentin Tarantino è definibile come un vero e proprio evento cinematografico.

Questo è fuori discussione dal giorno in cui il regista di Knoxville ci ha regalato quella perla nota come Le Iene.

Però con Bastardi senza Gloria Senza Gloria qualcosa era cambiato. Tarantino, oltre a cominciare un percorso di “revisionismo storico” che sarebbe proseguito fino al recente C’Era una volta a… Hollywood, era definitivamente divenuto un filmmaker capace di fare una caterva di soldi al box office e di dettare legge nonostante un panorama sempre più all’insegna di “cinecomic e piattaforme streaming che distruggono il cinema”

Nei tanti momenti indimenticabili di Bastardi senza Gloria il più bello resta quello finale, quello del “messaggio alla Germania” di Shosanna Dreyfuss, con le fiamme che avvolgono lo schermo prima e il cinema poi regalandoci un finale che la storia, quella vera, non è stata capace di dare. Con la furia dell’Orso Ebreo Eli Roth come ciliegina sulla torta.

L'articolo continua nella pagina successiva

2010 - Avatar, di James Cameron

C’è chi lo ritiene una versione aggiornata e sci-fi della storia di Pocahontas e John Smith e chi un capolavoro.

Sembra che quando si parla di Avatar di James Cameron non esistano le vie di mezzo, come è giusto che sia con un regista che può essere solo all’insegna del prendere o lasciare. E a 12 anni di distanza dalla sua ultima incursione cinematografica, Titanic, gli scettici erano molti. Poteva davvero colui che era diventato “il re del mondo” ripetere l’exploit commerciale con un film fatto di “carne e silicio” che necessitava di scomodi occhialoni 3D per essere vissuto al meglio?

La risposta la sappiamo tutti.

E ora che Avatar è stato scalzato dalla prima posizione dei maggiori incassi cinematografici di sempre (con dati non aggiustati all’inflazione, ndr) e un sequel in arrivo a dicembre del 2021 a 12 anni di distanza dal precedente in un panorama cinematografico così differente da quello del 2009 (in Italia, come noto, la pellicola debuttò a gennaio del 2010), siamo tutti qua a porci nuovamente le stesse domande di un tempo.

Ce la farà James Cameron a tornare il re del Mondo?

2011 - Harry Potter e i Doni della Morte Parte II, di David Yates

Cinematograficamente parlando, la saga di Harry Potter ha sempre avuto la sua notevole dose di problemi. Nella messa in scena fatta di VFX non sempre all’altezza, nell’adattamento di quello che veniva raccontato nella pagina scritta. Per non parlare dello scotto principale pagato dai primi due capitoli: l’essere usciti sostanzialmente insieme a La Compagnia dell’Anello e Le Due Torri. Certo, dal punto di vista degli incassi la cosa non destò particolari problemi, ma cinematograficamente parlando l’inevitabile paragone faceva uscire i film di Chris Columbus più che con le ossa rotte, letteralmente frantumate. L’arrivo di colui, David Yates, che avrebbe poi traghettato verso la fine (nonché verso il rilancio della saga con Animali Fantastici) la storia della battaglia fra Harry Potter e Lord Voldemort ci ha regalato quattro film che definire imperfetti sarebbe riduttivo, ma che con la “seconda parte dell’ultima parte” hanno finalmente trovato una chiosa con un registro, di epica e di pathos, che sarebbe stato bello trovare anche altrove. Nonché la scena più bella e struggente di tutta la saga, quella dedicata alla storia di uno dei personaggi più amati, complessi e interessanti fra quelli che hanno abitato le mura di Hogwarts. 

E chiaramente non stiamo parlando di Harry Potter.

Harry Potter

2012 - The Avengers, di Joss Whedon

Il divorzio fra la Marvel Entertainment e i Marvel Studios doveva ancora diventare realtà per la gioia di tutti noi, ma soprattutto di Kevin Feige, e gli effetti dei dissapori fra la “sede centrale” della Casa delle Idee e la sua divisione cinematografica, con le liete eccezioni di Captain America: The Winter Soldier e Guardiani della Galassia Vol. 1, si sarebbero fatti sentire fino a Age of Ultron. Ma nonostante le ben notte “guerre civili” interne alla Marvel, The Avengers di Josh Whedon è stata la prima di una serie di pietre miliari targate Marvel Studios poste lungo il cammino dell’UCM. Whedon non aveva un bagaglio enorme in materia di regia per il grande schermo, anzi, ma era una scommessa sicura per quel che riguardava la conoscenza del materiale (e della cultura pop in genere) nonché anni e anni di esperienza in ambito di serialità, televisiva e fumettistica. 

Il resto, come si suol dire, è storia.

2013 - The Conjuring, di James Wan

Che James Wan fosse già un piccolo Re Mida lo sapevano in molti a Hollywood e non solo. Era stato lui, d’altronde, a partorire le saghe di Saw e di Insidious, film fatti con due spiccioli capaci di generare incassi superiori ai 100 milioni di dollari.

Ma con il primo The Conjuring, horror dall’impostazione classica se vogliamo e meno “folle” del meraviglioso secondo capitolo, Wan ha ingranato la proverbiale marcia ed è passato definitivamente fra i grandi di Hollywood. Ha aperto le danze di un franchise, il Conjuring Universe, che avrebbe poi dato vita a una pletora di spin-off sicuramente meno riusciti dal punto di vista cinematografico, ma forieri di notevoli soddisfazioni economiche per la Warner (e il pubblico pagante che ne ha decretato il successo) per arrivare poi a guadagnarsi, con l’ipertrofico Aquaman, le chiavi di casa DC.

Tanto che oggi, il minuto e sempre sorridente regista che noi di BadTaste abbiamo avuto l’onore di incontrare più e più volte, è diventato uno dei giganti di Hollywood.

2014 - Interstellar, di Christopher Nolan

Viaggi spazio temporali, wormhole, salvezza del genere umano. Nei giorni in cui Interstellar era “solo marketing”, pensavo che Nolan stesse per gabbarmi con una supercazzola in puro stile conte Mascetti di Amici Miei.

Ma alla fine i concetti sopra esposti si sono solo rivelati essere il corollario di una storia che, tolto il  grandeur dell’IMAX e della splendida partitura musicale di Hans Zimmer, è tutta basata sull’amore di un uomo per sua figlia. In quello che si è rivelato come il film più umano, caloroso del solitamente algido autore inglese.

Certo, Christopher Nolan non è Steven Spielberg e manca quella capacità di andare dritto al nocciolo della questione con quella pragmaticità tipica del cinema americano.

Ma d’altronde al buon Nolan vogliamo bene anche perché è un nerd cervellotico, o no?

2015 - Mad Max: Fury Road, di George Miller

Il folle circo di metallo e ottani allestito dall'allora settantenne George Miller non poteva non rappresentare il cinema pop del 2015, nonostante la Forza che si stava per risvegliare a dicembre della medesima annata (ma di Star Wars avremo comunque modo di parlare). Una storia basica, lineare, una “fuga da” come tante se ne sono viste al cinema e che, come spesso accaduto sul grande schermo – si pensi a Duel di Spielberg solo per citare un caso eclatante – riporta il cinema alla sua essenza primigenia di racconto fatto di immagini e montaggio delle medesime.

Lode a quei folli executive della Warner Bros che hanno messo nelle mani di Miller and co. (non senza problemi di natura legale che abbiamo scoperto solo in seguito) 150 milioni di dollari per andare a girare un film dalla gestazione più che decennale nel deserto della Namibia. Lì dove anche i responsabili dello studio avevano difficoltà a capire quello che stava effettivamente succedendo.

E che hanno probabilmente compreso appieno solo una volta che il Coma Doof Warrior ha iniziato a suonare la sua chitarra-lanciafiamme.

Mad Max: Fury Road

2016 - Rogue One: A Star Wars Story, di Gareth Edwards

La pellicola di Gareth Edwards (e forse anche un po' di Tony Gilroy) è la sola, unica e vera “suicide squad” arrivata nei cinema nel 2016. Un film in cui tutti i protagonisti sono destinati a un percorso ben preciso che deve necessariamente essere così per il bene di tutti, un'opera a suo modo molto più politica di un polpettone britannico sul proletariato industriale di Manchester. Nei giorni del suo esordio nelle sale pareva anche l'ulteriore dimostrazione che “la Lucasfilm secondo Kathleen Kennedy” dimostrava già una coerenza editoriale ben più marcata di quella tipica degli anni in cui il padre e padrone della saga George Lucas aveva decisamente perso il bandolo della matassa. Gli anni successivi hanno dato prova che, magari, non era propriamente tutto così rose e fiori, ma nonostante le recenti polemiche per il raffazzonato L'Ascesa di Skywalker, tanto The Mandalorian quanto Star Wars Jedi: Fallen Order hanno dato prova che nella Galassia Lontana, Lontana di Star Wars c'è ancora tanto, tantissimo spazio di manovra e terreni fertilissimi per storie nuove ed inedite capaci di omaggiare la saga in maniera intelligente. Come Rogue One appunto.

2017 - Star Wars: Gli Ultimi Jedi, di Rian Johnson

Per essere il film che ha spaccato il fandom, quello che doveva essere rigettato e dimenticato... beh, c'è da dire che durante gli eventi stampa di L'Ascesa di Skywalker JJ Abrams and co hanno parlato più del film di Rian Johnson che del loro (e forse, visto il risultato di questo nono Star Wars, è stato meglio così).

Ho già parlato tanto di questo film e, tutto sommato, penso di essermi già espresso a dovere nello special scritto lo scorso anno che potete trovare a questo link.

Perché scommetto che a dieci anni da oggi, sarà ancora Gli Ultimi Jedi il film della Nuova Trilogia che riuscirà a far parlare di sé.

2018 - Ready Player One, di Steven Spielberg

Come scrivevo 12 mesi fa:

Non avrei pensato, un anno fa, che sarei finito per inserire al primo posto della classifica dei blockbuster il film di Steven Spielberg.

Lo ammetto.

Ero estremamente diffidente.

E lo ero perché il romanzo, una volta tolto il gioco delle infinite citazioni, è un “normalissimo” romanzo young adult come tanti ne abbiamo letti (e visti adattati per il cinema) negli ultimi anni.

Lo ero perché, nonostante le rassicurazioni di Spielberg sulla mancanza di riferimenti diretti ai suoi film, temevo l’autoreferenzialità.

Lo ero perché i primi materiali promozionali erano un po’ troppo “posticci” e avevo dubbi sulla resa finale.

Tutta la diffidenza è stata azzerata una volta che i miei occhi hanno effettivamente “assorbito” le immagini di un film che, oltre a essere una splendida riflessione e un sentito omaggio al cinema più che alla “semplice”cultura pop, è un nuovo tassello nella carriera di un regista leggendario da sempre interessato alle dinamiche umane, alle relazioni col prossimo e alla critica di tutte quelle forze che, tirannicamente, vogliono impedire il democratico esercizio dello scambio di idee. E non è un caso che Ready Player One sia arrivato in sala a poca distanza da The Post perché la tematica di fondo è la medesima.

Ma l’esecuzione, in Ready Player One, è anche superiore.

2019 - Avengers: Endgame, di Joe e Anthony Russo

In mesi e mesi di chiacchierate fatte in ogni dove per cercare di dare una risposta all’annosa domanda "Che cosa può essere definito cinema e cosa no?", posso solo dire che il vedere Avengers: Endgame per tre volte in sale gremite di un pubblico composto da gente di ogni età e genere, persone riunitesi in un luogo di aggregazione sempre più bistrattato per vivere insieme il culmine di un racconto cominciato nel 2008, è stata un'esperienza a suo modo unica.

Un kolossal, quello dei fratelli Russo, che al di là degli oggettivi meriti cinematografici, rappresenta qualcosa di quasi incomprensibile in una società come la nostra, fatta di vecchi e di giovani che spesso pensano già come dei vecchi. È un film che parla di morte e di sconfitta come The Irishman, ma meglio di The Irishman, ma, allo stesso tempo, è un film che parla di riscatto e della consapevolezza che, dopo di noi altri arriveranno.

È un film per chi nel 2008 aveva 25 anni e andava a vedere Iron Man con la propria compagna o il proprio compagno e ora, nel 2019, si ritrova magari ad avere dei figli e a dover fare i conti con la fine della "seconda adolescenza" che si vive fra i 30 e i 40. You’re a Big Boy Now, direbbe un regista che con certa cultura pop non va molto d’accordo come il suo amico Scorsese.

È un film per chi nel 2008 aveva 8 anni ed è andato, o andata, a vedere la prima avventura di Tony Stark con mamma e papà costruendo dei ricordi preziosi che solo la visione di un film amato in tenerissima età può dare e ora si ritrova, a quasi a 20 anni, a salutare i propri paladini d'infanzia Iron Man e Captain America (ma anche Vedova Nera), con la consapevolezza che altre storie e avventure verranno.

È una storia che guarda indietro e, ancor più, guarda avanti.

E se non è cinema questo...

Avengers: Endgame robert downey

Cosa ne pensate dei blcokbuster che abbiamo scelto per rappresentare questi vent'anni? Ditecelo nei commenti!

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