I 20 anni di Donnie Darko raccontati a chi lo vede oggi per la prima volta
Donnie Darko compie 20 anni. È invecchiato abbastanza bene ma, per essere amato oggi, va raccontato il contesto in cui arrivò nelle case
È in questo clima che si sviluppò il fenomeno Donnie Darko. E mai come in questo caso è impossibile scindere il contesto dell'epoca dalle ragioni di esistenza dell’opera. A distanza non si può comprendere la forza questa epopea, fatta di viaggi nel tempo e nello spazio, se non si respira la stessa atmosfera degli anni in cui venne vista. Nelle sue immagini c’è l’odore dei corridoi di Blockbuster, si sente il gracchiare delle prime connessioni internet. C’è la scoperta delle immagini pulite dei DVD, con i colori freddi delle prime riprese in digitale. Una madeleine dei ricordi, che ancora oggi segna una generazione.
L’opera di Richard Kelly fallì al box office, ma riacquistò una nuova vita in home video nel 2002. Lentamente il film conquistò una fan-base attivissima, soprattutto online, che analizzava il film nel dettaglio, proponeva teorie, creava l’alone leggendario della pellicola. Ci mise molti anni, ma Donnie Darko riuscì a prendere un posto in prima fila nella fantasia collettiva del primo decennio del 2000.
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Ma che cos’è Donnie Darko oggi?
Sicuramente è un film figlio del proprio tempo, fatto di quell'entusiasmo derivante dalle nuove possibilità, dei nuovi mezzi, che permettevano a chiunque di esprimere il proprio immaginario. È un'opera prima di tutto adolescenziale e ribelle che proprio a questo pubblico si rivolge.
E lo fa con sincerità.
Nel protagonista c'è tutto l'animo del regista: un “cannibale” che si è nutrito dei linguaggi cinematografici e li fa convivere in un mashup di tanti sapori.
Kelly emula Tarantino per il gusto del dialogo (apparentemente) a vuoto, come nella discussione attorno all’origine di Puffetta. C’è molta voglia di intellettualismo arthouse, di sperimentazione sulle forme video contaminate con altri media. Si guarda al videogioco (gli inserti delle visioni di Donnie) e alla manipolazione visiva del tempo. Si cita Shining, quando imbraccia l’ascia, c’è un’atmosfera talvolta lynchiana (quello stesso anno sarebbe arrivato in sala Mulholland Drive), e spesso il film flirta con Psycho. Quello creato da Richard Kelly era un meccanismo narrativo accattivante per chiunque stava sviluppando la propria (ancora acerba) cinefilia.
È veramente facile innamorarsi di Donnie Darko e, proprio per questo, è altrettanto facile sentirsi respinti. È facile coglierne i riferimenti e la complessità e, per questo, è ancora oggi un film perfetto per fare scoprire ai giovani un cinema diverso da quello commerciale.
L’opera ha rappresentato per molti spettatori un ponte, nella costruzione della passione verso il cinema. Così semplice da potere essere visto in compagnia la notte di Halloween. Così complesso da richiedere revisioni e dibattiti.
Vedere, giocare e rivedere
La riproducibilità del mezzo è proprio uno dei fattori di successo. Non è un caso che la circolazione del film sia iniziata proprio nella forma DVD.
Donnie Darko è un gioco con lo spettatore.
Il rapporto con chi guarda è asimmetrico, il narratore non nasconde la propria superiorità. È sfidante, si chiede partecipazione attiva nel leggere i significati, studiare le immagini. Ritornare sul testo filmico significa, proprio come i personaggi intrappolati nel “loop” della fine del mondo, “risvegliarsi” con una nuova consapevolezza. La magistrale scena che apre l’epilogo, con la cover di Mad World di Gary Jules e il carrello su tutte le persone incontrate dal protagonista nei 28 giorni prima della fine del mondo, sembra inquadrare anche lo spettatore che, in quel momento, ha ricevuto la rivelazione dell’apparente significato del film.
Vedere, rivedere, fermare e tonare indietro, saltare di scena in scena -resi possibili dalla virtualità del DVD- sono azioni integranti ed essenziali per l’esperienza.
Oggi tutto questo è entrato talmente nella prassi cinematografica da sembrare banale e già visto. Donnie Darko oggi sembra semplicissimo da comprendere rispetto a film successivi come Primer, Coherence, ma anche il più commerciale Tenet. Siamo oramai abituati a cercare easter egg e riferimenti “meta” nelle immagini, anche nelle serie TV (si veda il recente esempio di WandaVision). All’epoca lo eravamo molto meno.
Come Fincher ci mostrava in Fight Club (1999) la consistenza fisica della pellicola con buchi, graffi e stop improvvisi, Kelly gioca con il tempo. Nella director’s Cut di Donnie Darko i momenti sono scanditi dai capitoli di un libro sfogliato in maniera non lineare. La visione del protagonista è alterata, allucinata e schizofrenica. La veridicità dell’immagine è messa in dubbio. Ma non nella sua consistenza (quello che appare, esiste veramente?), ma nella sua temporalità (quando è esistito?).
Lo spirito di ribellione adolescente
Donnie Darko va visto in un certo periodo della vita. Quello della ribellione, in cui la frenetica ricerca della propria identità va a braccetto con la formazione di una prospettiva egocentrica per cui tutto è in riferimento al soggetto che percepisce.
Insomma: l’adolescenza.
La sceneggiatura del film è scissa, proprio come il suo protagonista. Vuole parlare di tutto, accusare tutti, ma al contempo trovare soluzioni ai problemi dei massimi sistemi. E, incredibilmente, lo fa benissimo. Per lo meno coerentemente con il mondo che ha dipinto.
Ci sono alcune intuizioni brillanti che reggono tutto il film: i “wormhole”, vermi trasparenti -diciamo così- che escono dal petto delle persone e segnano il loro immediato destino. Nonna morte che guarda la casella di posta in attesa di una lettera mai arrivata o che, forse, è già stata consegnata in un universo alternativo. E poi c’è Frank, una presenza inquietante, ma non disturbante. Un amico e mai un villain da film horror, anche se ne assume le sembianze. Un facile lato oscuro di Donnie, che però si stratifica e diventa complessissimo proprio grazie ai continui salti e nodi della trama.
Alla fine, a distanza di anni, Donnie Darko appare sempre di più come un film sull’adolescenza che come un horror fantascientifico. È un’opera di ribellione sia nella forma che nella sostanza.
Il dito è puntato contro tutti e nessuno si salva. Gli adulti sono grottesche maschere influenzate dal motivatore di turno. La scuola è un’istituzione vuota che svuota gli studenti; che licenzia con l'accusa di essere sovversivo, chi introduce questi "non più bambini" all’arte per adulti. Nel film, il romanzo I distruttori di Graham Greene è bandito dal comitato genitori e sostituito da La collina dei conigli. Richard Kelly fa la stessa cosa, ma all’opposto, con lo spettatore preadolescente che guarda Donnie Darko. Lo introduce in quel mondo del cinema d’autore che turba e spiazza, contrapposto al più rassicurante e semplice cinema hollywoodiano.
Nemmeno la psicologia può contenere l’espressione vitale di Donnie. I meccanismi degli adulti non capiscono, non possono comprendere la sua complessità. E, alla fine, è proprio lui a compiere il proprio destino; lui che riesce a vedere più chiaramente di tutti gli altri che invece credono di detenere la verità. Non è influenzato dalla politica, dalla televisione, dalla morale cattolica. È l’ultimo degli uomini liberi.
Donnie è molteplice: ha in sé il presente e il futuro che si fa passato. Ha il bene e il male. La paura e l’amore. Ma è anche un eroe per nascita e non per scelta, che chiude il cerchio e risveglia le coscienze.
Per questo Donnie Darko è piaciuto così tanto, e piace ancora, a molti di quegli spettatori che hanno preso in mano il DVD dai polverosi scaffali del videonoleggio. Perché ha saputo interpretare bene il suo tempo e prendere per mano chi guarda e guidarlo nei cambiamenti in atto nel cinema.