Hunger Games 10 anni fa doveva salvare la Lionsgate e accidentalmente creò il blockbuster moderno
La rivoluzione di Hunger Games: dall'esplosione della galassia Young Adult alla prova che una donna poteva guidare un blockbuster da protagonista
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“Mi chiamarono tutti dalla Lionsgate, mancava solo il parcheggiatore”
Il 2011 era stato un anno durissimo per la compagnia, avrebbero acquisito la Summit Entertainment, altra casa di produzione minore che però aveva creato le versioni filmiche di Twilight, l’avevano pagata cara sebbene non fossero uno studio grosso, non avevano avuto particolari successi, però volevano crescere. Avevano la saga di Saw, un po’ di cinema d’autore, la serie Mad Men (grandiosa ma non una miniera d’oro), molto cinema indie, commediacce e horror dai bassi costi e i buoni incassi ma non vedevano un vero profitto, grosso, da 5 anni. Che sono quelle cose che tendono a portare l’acqua alla gola. Certo in borsa il titolo andava bene, anche grazie all’acquisizione di Summit, ma era chiaro che c’era bisogno non tanto di un successo, quelli li avevano avuti, ma di una saga di successo, qualcosa di stabile. Hunger Games era nato per essere quello. Condannato ad essere un successo.
A volere i diritti di Hunger Games erano la Warner, la New Regency (all’epoca in possesso di un bel contratto per la distribuzione con la 20th Century Fox) e la Spyglass (che veniva da Star Trek, il film). La Lionsgate però era così determinata da offrire quello che gli altri non osavano mettere sul tavolo: una partecipazione agli incassi e una sedie al tavolo degli sceneggiatori per la Collins.
Generazione Katniss
“Una delle versioni dell’adattamento era davvero irresponsabile. Puntava tutto sull’effetto WOW e gestiva malissimo la violenza tra gli adolescenti. Una sceneggiatura che si macchiava degli stessi crimini di Capitol” racconta Nina Jacobson, a cui forse bisogna credere fino ad un certo punto, vista la sua esperienza nel promuovere se stessa e i suoi prodotti. Di certo la versione finale, quella di Gary Ross scritta con Suzanne Collins e Bill Ray, è un gioiello di tono e misura che utilizza il materiale del libro, lo comprime e lo reindirizza sullo schermo riuscendo a mettere le paturnie adolescenziali non tanto al servizio di una storia d’amore (che è quello che fa Twilight) ma al servizio di una storia di persone sottomesse, sfruttate, marginalizzate e le cui vite sono brutalizzate, senza che questo prenda la strada del gore ma si mantenga materia mainstream, anzi che possa flirtare con la leggerezza delle storie adolescenziali.
Poteva essere un film con ragazzi buoni contro ragazzi cattivi, invece è una grande tragedia generazionale in cui va male a tutti e la morte è ovunque ma anche un evento a cui non ci si abitua mai.
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Hunger Games del resto arrivava in un momento particolare. Il romanzo è del 2008, il film del 2012. Erano gli anni in cui cominciavano ad emergere delle generazioni di adolescenti e poi post-adolescenti (cioè young adult) cresciuti in una società in costante crisi. Crisi economica del 2001, crisi del terrorismo del post 11 settembre e poi crisi dei mutui sub prime del 2008. Se negli anni ‘50 e ‘60 ma anche ‘80 e ‘90, il mondo del lavoro, la situazione economica e la posizione degli Stati Uniti (e per certi versi del mondo occidentale tutto) facevano pensare alle generazioni giovani di avere delle opportunità, quella era la prima generazione che vedeva intorno a sé un mondo in cui dover lottare per sopravvivere. A quelle persone quella storia raccontava di ragazzi in lotta tra di loro per ordine delle generazioni più vecchie. Il principio di Battle Royale (manga e poi film giapponese, che enfatizzavano ancora di più il conflitto generazionale) che tanta fortuna ha avuto proprio da quegli anni in poi (gli originali giapponesi invece sono usciti a cavallo del 2000).
Nel 2016 l’economista britannica Noreena Hertz sul Guardian, definiva questa generazione cresciuta in mezzo a crisi e necessità di lottare per sopravvivere, “generazione Katniss”.
"Ne abbiamo provinate tante per Hunger Games. Ma non serviva"
L’ultima delle decisioni complicate per la Lionsgate fu chi prendere come Katniss Everdeen. La scelta più facile era Megan Fox. La più spinta agli studios, fresca di Transformers, facilmente copertinabile. Una volta tanto però una casa di produzione decise di non volere un grande volto ma un’operazione in stile Twilight, creare un franchise con qualcuno che non fosse già famoso, che non portasse con sé altri ruoli e altri caratteri o anche solo la sua personalità ma che fosse totalmente identificabile come Katniss per tutti. Deciso quello il resto era in discesa. Jennifer Lawrence aveva già girato 4-5 film e una serie tv, soprattutto era reduce da Un gelido inverno, per il quale era stata anche nominata all’Oscar. Aveva venti anni e reggeva da sola un film con una performance da nomination. Una volta deciso che non avrebbero preso un volto non c’era gara, avevano probabilmente la miglior attrice della sua generazione in uno dei suoi momenti di massima forma. E nel film si vede. “Ne abbiamo provinate tante perché è così che sì fa quando il film è grande. Ma non serviva. Quando venne Jennifer a fare la prima lettura del copione spaccò tutto” dice Gary Ross.
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Il film la sfrutta in pieno. Gary Ross è bravissimo nel misurare tutto intorno a lei, avendo capito che può non solo reggere il film ma anche farlo correre al di là della sceneggiatura. E così la tiene sempre inquadrata, un peso immenso gestito benissimo. Siamo con lei non solo perché c’è sempre lei in scena, ma perché il film bada bene a fare in modo che ne sappiamo quasi sempre tanto quanto lei (ne sappiamo di più solo quando serve alla suspense). Tutto Hunger Games è studiato con grandissima cura, specialmente dal punto di vista delle inquadrature, per incastrare una ragazza in una tragedia più grande. Una tragedia mediatica. Che è tutto ciò che poi non riusciranno ad essere i sequel, diretti in modo mediocre a fronte di una grande storia, un vero racconto di formazione che dice alle ragazze che il loro corpo è bramato da chi produce immagini, che quando viene ripreso o fotografato è sempre usato da qualcuno, che i nuovi media audiovisivi non sono mai neutri ma anzi portano con sé sempre delle ideologie. Un film d'azione realmente femminile in cui i colpi più duri sono portati con un abito particolare e un taglio di capelli, in cui niente funziona secondo la mentalità maschile. E in tutto questo Jennifer Lawrence crea una Katniss sempre disperata, ma mai fastidiosa, sempre grintosa ma mai antipatica, sempre dura, aggressiva ma anche molto dolce. Soprattutto crea un’eroina. Che non è una cosa da poco.
Nel 2012 non esistevano eroine protagoniste di un blockbuster d’azione. Erano protagoniste di film di serie B, o produzioni medie, erano magari spalle, ma non reggevano un film con quelle ambizioni indirizzato a quel pubblico. Jennifer Lawrence crea un personaggio potente e non saputello, migliore degli altri come sono sempre gli eroi ma non irreale, potente, potentissimo ma anche affascinante. L’eroina dei nuovi anni.
L’incasso previsto era di 300 milioni, quello finale sarà di quasi 700 in tutto il mondo. Un grande colpo per Lionsgate (che da lì in poi ha sempre cercato altri franchise trovandoli occasionalmente come con John Wick) ma un cambio di mentalità per tutta Hollywood che per la prima volta toccava con mano il fatto che un personaggio femminile poteva reggere e “vendere” un blockbuster. Era accaduto in Twilight ma quello era cinema romantico travestito da horror, questo era un film che voleva portare in sala anche i ragazzi e ci riusciva.
Tre anni dopo la nuova trilogia di Guerre Stellari avrebbe scelto come protagonista una donna.