Ho visto tutto Black Mirror: Bandersnatch e ho scoperto che, grazie al cielo, non è per nulla interattivo

L'episodio interattivo di Black Mirror intitolato Bandersnatch rimette al centro del dibattito l'interattività nella narrazione ma in realtà non è interattivo

Critico e giornalista cinematografico


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Chi controlla i personaggi di una storia? Chi controlla chi li scrive? Chi controlla chi scrive una storia che parla di uno scrittore che scrive dei personaggi? E chi controlla chi guarda una storia che parla di uno scrittore che scrive dei personaggi? Bandersnatch frantuma all’infinito, come in due specchi uno di fronte all’altro, la catena narrativa. C’è sempre qualcuno più in alto nella trama di questo episodio di Black Mirror che gioca con l’interattività (o meglio: che fa finta di giocare con l’interattività), e noi in che posizione stiamo?

Come sempre in ogni episodio di Black Mirror la domanda è la stessa: come faccio a sapere che quello che vivo è reale? È la domanda che si poneva Dick in ogni racconto ed è l'interrogativo fondamentale della fantascienza moderna. Solo che stavolta la serie cerca di fare in modo che a chiederselo sia lo spettatore.

Nel 1984 Stefan sta programmando un videogioco chiamato Bandersnatch. È un gioco a scelta multipla, molto rivoluzionario per la sua epoca (è davvero esistito un gioco con questo nome mai uscito ma non era come quello che vediamo nella puntata) in cui la storia si dirama continuamente a seconda delle scelte del giocatore. Nel 2018 noi spettatori guardiamo Bandersnatch (l’episodio di Black Mirror) e decidiamo che percorsi deve prendere la storia.

Questa è la base dell’episodio. Stefan nel programmare il gioco conosce una star del game design e tramite lui entra nel mondo del complottismo sulle realtà alternative e il libero arbitrio. Non siamo liberi di scegliere, c’è qualcuno che sceglie per noi, e come Neo in Matrix, è immergendosi nella programmazione, nel codice informatico e nella follia del lavoro compulsivo, studiando i diagrammi di flusso e il sistema a bivi che più il suo cervello, preda del loop creativo e delle droghe, che inizia a vedere lo schema dell’universo e ad accorgersi che le sue scelte non sono davvero sue.

Ci saranno problemi con lo sviluppo del videogioco, Stefan lo finirà e andrà molto male, oppure lo finirà e andrà bene, oppure non uscirà mai a seconda delle scelte che chi guarda l’episodio compie. Ma poi a fine trama si può anche tornare indietro (in punti decisi da Netflix) e fare nuove scelte e più andiamo avanti, più ci addentriamo in questi re-play che sanno di essere tali (perché la trama fino a quel punto che già conosciamo ci viene ricordata con montaggi molto rapidi, già realizzati da chi ha montato la puntata). In parole povere più penetriamo dentro questa storia, più cominciamo a modificare quel che non era modificabile in origine. Più ci perdiamo nell’ossessione più iniziamo a vedere lo schema generale e giungere ad una realtà più profonda.
Arrivati al termine della storia se non si sceglie di guardare i titoli di testa ma di ripartire e poi di nuovo ripartire e ripartire, come Bill Murray in Ricomincio da Capo, se insomma non ci si accontenta di uno, due o tre finali è possibile cominciare ad uscire dai confini dell’intreccio (Stefan consegnerà o no il suo videogioco in tempo?) e iniziare a spaziare nei traumi di Stefan e nei suoi ricordi, fino a modificare anch’essi.

La forza di Bandersnatch non è quella di un film (o di una serie) di David Lynch, in cui linee temporali e morali, motivi ricorrenti e ossessioni sono interni al racconto e non è nemmeno quella dei veri librigame o racconti “interattivi”, perché qui in realtà non si decide nulla davvero, sì prendono piccole decisioni ininfluenti e si possono percorrere percorsi predefiniti. La sua forza è altra e più potente, è quella di dare la possibilità allo spettatore di uscire dal racconto e cominciare ad indagare il proprio ruolo in esso. Ovviamente Bandersnatch lo sì può chiudere in fretta, in 40 minuti, e si avrà una fine, ma se si è interessati si può prendere parte alla caccia organizzata da Charlie Brooker per un senso più profondo. Accademico.

L’episodio e la sua struttura si sfaldano piano piano. Anche noi come Stefan cominciamo a notare che c’è di più. Stefan capisce ad un certo punto che esiste qualcosa chiamato Netflix (citato esplicitamente) dietro a tutto, anche se non sa cosa sia perché vive nel 1984, e quando pensiamo di essere liberi di dare forma al racconto capiamo che quali scelte fare lo decide questo Netflix, addirittura in certi casi non c’è proprio scelta. Stefan capisce che noi lo comandiamo, e quando pensiamo di comandarlo anche noi capiamo che Netflix tira le fila di tutto (e del resto l’episodio è pieno di riferimento ad altri episodi di Black Mirror come se fosse ambientato nella sua realtà).

Netflix aveva proposto a Charlie Brooker di fare un episodio interattivo perché ha sviluppato la tecnologia per alcuni programmi per bambini, Brooker ha fatto di più, ha trollato Netflix realizzando un episodio pieno di interattività ma per niente interattivo. È totalmente senza alcun senso il sistema di scelta, si può scegliere quel che si vuole quando si vuole ma non cambia niente, i diversi percorsi della storia vanno comunque attraversati tutti per arrivare al vero finale, e l’ordine in cui vengono visti non fa poi molta differenza perché solo l’ultima chiusa, quella nel flashback ha un vero senso, piega le regole della messa in scena, passa attraverso lo specchio (letteralmente) e fa qualcosa che non era previsto né si poteva scegliere.
E grazie al cielo!

Non c’è nulla di più fasullo del concetto di interattività applicato alla narrazione. Una chimera che libri, teatro, cinema e tv inseguono da tantissimo tempo ma che non ha nessun senso, più interessante a parole che nella realtà. L’ingerenza delle decisioni dello spettatore nella storia non è piacevole e non fa che mescolare acque che, per avere senso, devono rispondere ad un’unica volontà. È il narratore che decide un percorso e lo spettatore lo ascolta o guarda, metterci le mani non migliora l’esperienza, la turba e ci rende consapevoli del meccanismo, ci tira fuori dall’immersione spezzando qualsiasi sentimento, dalla suspense al crescendo emotivo. Solo i videogiochi possono consentire al fruitore di influire sulla storia perché le scelte sono insite nel loro linguaggi, lavorare nella storia, metterci le mani e prendere decisioni in prima persona è la regola nei videogiochi, nonchè parte degli obiettivi, e accade ogni secondo. Non al cinema, non nei libri, non in tv, non a teatro, lì lo spettatore fruisce senza agire. E nonostante tutto questo lo stesso anche nei videogiochi la storia più interessante è quella decisa a priori, tanto che molto spesso le variazioni indotte dallo stile di gioco sono piccole, mentre giochi come quelli della Quantic Dream, nonostante il grandissimo sforzo, non brillano per memorabilità, almeno non quanto racconti più strutturati come God Of War, The Last Guardian o Last Of Us.

Bandersnatch rifiuta l’interattività e coinvolge lo spettatore in un episodio di Black Mirror che non è ambientato nella sola realtà di finzione ma si allarga, esce dallo schermo e coinvolge la nostra realtà. La storia non è di Stefan che si rende conto che esiste qualcosa che lo agisce ma di ogni spettatore che sta guardando la puntata ne capisce la trama e, grazie ad essa, ad un certo punto inizia a comprendere che anche nella sua di realtà forse non è lui a prendere le decisioni come crede.

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